E vedere cosa succede

Sono un po’ affascinata dalla piega che può prendere la vita, sapete. Così, imprevedibile. Sono nella mia vecchia stanza, sotto i fili con appese cartoline e foto di millenni fa.
Mi guardano tutte un po’ stupite.

Mi sorride la barchetta piena di uomini che mi regalarono per scherzo, quando di uomini non ne avevo nessuno; decine di conigli di ogni foggia posati ovunque a impolverarsi, regali di papà alla sua sempre bambina; i libri di scuola, tenuti per feticismo della memoria, o magari per usarli un giorno in un’altra scuola e invece poi.

Oggi guidavo piano, accompagnando un vitale groviglio di tentativi -- riusciti, malriusciti, in itinere. Regalavo storie, la mia consueta mitologia aggiornata in versione epica; e ne ascoltavo altre, buone per il mio voyeurismo biografico -- e per sentirsi un po’ meno diversi.

Penso ancora, in sottofondo, alla disarmante casualità che mi governa. Alle possibilità che ho, ma potrei non avere. Che altri non hanno. E che le cartoline appese ai fili, senz’altro, non avrebbero mai immaginato.

Ma vince l’istinto, maledizione. Vince la voglia di giocarsele tutte, queste fantastiche, immeritate possibilità.
E vedere cosa succede.

[…and I swear I never knew, I never knew how it could be / and all this time, all I had inside, was what i couldn’t see… all the waves are washing over / all that hurts inside of me]

Come fare il purè quando il tuo ragazzo è un nerd

1) Leggere le istruzioni sulla scatola del purè (in buste pronte), osservando che servono 300 ml di latte e 200 ml di acqua.
2) Mentre si stanno valutando ad occhio le quantità, notare il proprio ragazzo sedersi al computer e aprire la calcolatrice.
3) Rassegnarsi e attendere.
4) Convertire i 300 ml di latte in mm cubi (V1).
5) Misurare altezza (h) e diametro di un bricco da latte, quindi calcolarne il volume (V2), ovvero h*Ï€r^2.
6) Trovare il valore di h tale per cui V2=V1.
7) Versare il latte nel bricco, in modo che il livello del liquido raggiunga il valore di h appena trovato.
8) Rimproverare il ragazzo nerd, perché ha immerso il metro direttamente nel latte.
9) Riversare questa quantità di latte nella pentola e portare a ebollizione.
10) Convertire i 200 ml di acqua in mm cubi (V3).
11) Calcolare il valore di h tale per cui V2=V3.
12) Riempire il bricco d’acqua, fino al livello del valore di h appena trovato.
13) Accorgersi di averne versata un poco di più.
14) Tentare di svuotarlo prima che il ragazzo nerd se ne accorga e abbia una crisi.
15) Versare nella pentola la quantità di acqua trovata, insieme al contenuto della busta.
16) Sentire il ragazzo nerd lamentarsi perché la preparazione è stata troppo laboriosa.
17) Insultarlo e mandarlo a mescolare.

Il filo

E ora cosa le dico, a quella cui avevo spiegato, tutta entusiasta, che basta provare. Che sì, hai meno possibilità, certo, ma basta aumentare i tentativi per tornare al pari degli altri.
E’ così rassicurante pensare che dipende da te.

Qualche anno fa, andai a trovare un’amica, mentre stava facendo un campo di volontariato. La casona si allargava su un colle, immersa nel verde, con vista sulle vallate. Gli altri andavano a letto troppo presto; così, una notte, rimasi nel parco finché non spensero tutte le luci. Trovai un punto da cui abbracciare bene il buio, e rimasi a domandarmi da che parte stavo.

Avevo visto, quel giorno, decine di senza speranza -- dove senza speranza non è una qualunque frasina pietosa, ma la descrizione esatta di uno status: quello di chi non sarà mai amato.
Matti, molti; prigionieri del corpo, altri -- i più angoscianti. Sapevo che, per la società, avevo qualcosa in comune con loro, potevano anzi chiamarmi con lo stesso nome. Ma la realtà è più variegata e io non sapevo fin dove arrivava l’insieme intersezione tra me e loro. Non sapevo se era così grande da contenere anche quella dis-perazione, e mi tormentavo cercando di tracciare il confine. Di qua -- i salvati -- o di là -- i sommersi. E io?

Ti salverai, andrei a dirmi, se potessi ritrovarmi in quella notte. Sarai amata. Siederei accanto a me stessa, affacciata sul nero butterato di luci, e mi consolerei.
Allora lei mi sorriderebbe, credo, ma di gioia agghiacciata. Come le offrissi l’ultimo posto su una scialuppa, mentre il resto della nave affonda.

E ora cosa le dico, all’altra passeggera. Scusa, sai, ti hanno anche osservata per un po’, ma poi hanno scelto me, per questo posto in salvo -- e non è che me lo meritassi, no, non ho fatto assolutamente nulla, sono solo più fortunata per nascita, per caso.

Una fortuna, fra l’altro, da ridecidere ogni giorno. Una monetina caduta dal lato sbagliato e, tac, eccomi d’un colpo di là del confine. I normodotati rimuovono il rischio, di solito. Sono così sicuri del proprio corpo da non figurarsi mai l’eventualità di perderlo, ferirlo -- come se non fosse poi certo, che, presto o tardi, si acciaccherà.
Ma io conosco la precarietà. Ho assaggiato la perdita improvvisa di qualche pezzo di me stessa, e ho visto bene -- ma dai -- che, anche senza quel pezzo, me stessa rimane sempre lei. Che c’è un filo a tenere assieme i miei fragili frammenti, e non importa quanti ne perderò, perché io sono il filo.

Ma il filo è nascosto, e nessuno lo nota. Sorride se qualcuno si affeziona ai pezzi che trattiene, al suo travestimento; a volte però piange, aspettando -- forse invano -- chi potrebbe amarlo anche da solo.

Tele-comando

Vedo di riflesso – perché nonguardolatvnonleggoigiornali – su facebook, tra link e notizie che pubblica la gente, somma indignazione per quel tale necrofilo assassino. Video struggenti, frasi vendicative che traboccano emotività, come fosse successo alla propria sorella.
E penso che i media ci hanno proprio traviato i sentimenti. Ce li risvegliano a comando, anzi a tele-comando, montando insieme un po’ di lacrime in diretta, pescando dalla cronaca ogni tanto il mostro giusto per deviare l’attenzione, per indirizzare l’odio a capri espiatori ovvi, incontestabili. Anche Orwell l’aveva capito: per controllare le masse ci vuole l’Ora di Odio, da gridare collettivamente contro il nemico giusto.

Io riserverei alle notizie di violenza una angolino in fondo ai giornali, da mettere giusto per dovere di cronaca, per non censurare nulla. Perché non è su queste cose che la gente deve imparare a farsi un giudizio. Agli stupratori ci pensa le legge, Dio, o chi per lui. E’ inutile essere informati su morbosi dettagli investigativi riguardo a delitti che non giudicheremo.

Io voglio essere informata sui morbosi dettagli investigativi che riguardano le persone che voterò, ad esempio. Sui disservizi e gli sprechi che loro provocano. Sui particolari di una nuova legge che, zitta zitta, un giorno mi inculerà.
Sulle donne vessate regolarmente ma che non andranno mai in tv e non avranno mai giustizia. Su quello che succede nelle carceri, dove un borseggiatore impara a diventare serial killer, o, se gli va bene (!), si suicida. O nei CIE dove il diritto è sospeso.
E poi voglio le buone notizie. No, non quelle sull’economia che naturalmentelacrisièfinita o sul governo chevatuttoameraviglia. Voglio le buone notizie vere, che danno coraggio a chi ne ha bisogno. Quelle delle donne che denunciano gli aguzzini o delle vittime del pizzo che si ribellano. Quelle che un giovane può essere disoccupato ma anziché fare il punkabbestia sceglie di fare il volontario, e anziché sfogare la sua rabbia menando un africano mette su un’azienda sostenibile.
Vuoi mai che l’emulazione scatti verso qualcosa di meglio dei lanciatori di sassi dal cavalcavia.

Quando noi vivevamo in attenzione

Lo dimentico così bene, quel tempo vuoto ma stracolmo nella testa,
finché una musica, di quelle che non senti più da tanto
(perché hai cambiato gusti, abitudini, ritmo)

e allora è come rigirarmi di nuovo in quel parco al pomeriggio o nel letto
di notte prima di dormire, guardando i fari disegnare sul soffitto
con lo stereo su vivaldi per costringermi a capire i violini -- sperando servisse
o su battiato per sentirmi intellettuale (e ovviamente delirare
su chi avrebbe superato le correnti gravitazionali)

(non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita)

[e naturalmente ho scritto / lettere / piene d’amore]

Chiese

donna che prega a Notre Dame de Paris

“Anche se rifiuto quasi tutte le cose della religione, non posso non provare tenerezza per tutte le persone che vengono qui, smarrite o sofferenti, in colpa, in cerca di una qualche risposta. Mi affascina l’idea che un solo posto possa unire tanta sofferenza e felicità, per tante generazioni.”

(Prima dell’alba)

[Così, mi aveva colpito la giapponesina inginocchiata, sola, mentre le altre schiere di giapponesini flashavano alle sue spalle. Loro sono rimasti fuori dalla foto, e mi piace pensare che anche lei abbia voluto lasciarli fuori, per un attimo.]

Quando si dice agaetis byrjun.

1.

– Ma dai, l’hai fatto anche tu… allora dimmi, com’è?
– Ah, io l’ho fatto perché era l’unico modo per iscriversi all’albo, ma non aspettarti niente dal corso.

2.

– …e quindi domani ho il test per Servizio Sociale…
– COSA? SEI PAZZA? Io l’ho mollato!

– – –

Nell’interminabile ora e mezza di appello e banali istruzioni su come non annullare il test disegnando cornicette sui bordi, ho osservato i candidati.
Circa duecento. Qualche sparuta attempatella, ma perlopiù sbarbine ben acconciate.
Quattordici maschi.
(Lo so che non dovrei più far caso a queste cose. Però…)

– – –

Ticchettando la penna sul tavolo, in attesa, ero emozionata. Non per paura di non saper dire se “un medico ordina o prescrive un medicinale”, ma perché, sotto quelle gradinate brulicanti matricole, contavo quanti dei miei vecchi sogni sono riuscita a realizzare.
Nessuno.

Ora proviamo con quelli nuovi.

Amnesie

Dev’essere la mia vecchia regista, sì, ecco chi è, ho pensato mentre ci fissavamo, nel tempo incerto del riconoscimento. Si sarà tagliata i capelli, mi son detta, mentre come va, da quanto, ti vedo bene. Certo, quell’occhio un po’ semichiuso, come da un tic o un problema nervoso, non lo ricordavo. E poi lei era più magra, pallida, col naso sottile. Da quanto tempo, dice. Ecco, già, quanto tempo fa è stato? chiedo per orientarmi. Cinque… sette anni, ho due figli, e tu ormai ti sarai laureata, infatti, lo sapevo non è lei, sette anni sono troppi per la regista. E lavori adesso, chiede, no, cioè, sì sono qui per un lavoretto, ma insomma forse comincio un’altra facoltà, rispondo, e faccio apposta a non specificare la facoltà, perché ho un dubbio, e se quel dubbio si avverasse ci sarebbe un che di imbarazzante, o di strano, a dirle di Servizio Sociale, ma approfittiamo della domanda per rimbalzargliela, e tu cosa fai? così magari mi ricordo, ah lo stesso di prima, dice, e che risposta del cazzo grazie dell’aiuto, penso, ti prego vai avanti così capisco chi sei, e poi beh mi son buttata nella “politica”, politica? ma sì all’interno della cooperativa,

cooperativa,

ecco la parola chiave, allora è lei davvero, l’educatrice di allora

saluta la famiglia, ti trovo proprio bene, sai, sorridente,
penso che sorrido perché credevo di sorridere a qualcun altro, forse a te avrei nascosto che sono felice,
o forse no, chissà, in fondo eri solo il piccolo ingranaggio di una macchina sbagliata.

Bambine

Ci sono esigenze insensate che vengono dal profondo. Frignano e pestano i piedi come capricci di bambini. Se non le assecondi, il vuoto nel petto è drammatico, l’ingiustizia subita enorme tanto quanto gli Adulti, lassù.

Con gli anni, calano. Cominci a sfoltire l’esigenza di dormire al buio anche in viaggio e di non farti mai toccare le tue cose. Poi è il momento di non piangere se perdi un oggetto caro, e di perdonare chi te li rompe. Alla fine riduci anche la mortale frustrazione di quando qualcuno non risponde a un sms, o ti dà buca poco prima di un appuntamento.

Un residuo di bambina, però, rimane sempre. Lei sta lì, zitta zitta per non incrinare la rispettabile apparenza di Persona Matura, finché all’improvviso la senti piangere dal fondo. Vuole attirare la tua attenzione, in genere nei momenti meno indicati. Cerca di commuoverti con frasi lancinanti dal tono lamentoso e vittimista, come uffa, avevo sempre immaginato di realizzare questo, e per colpa tua…, oppure ecco, lo sapevo, non gli importa niente a nessuno…, o dicono tanto che devo chiedere ma poi non fanno mai come vorrei, o ancora non è giusto, per voi è sempre tutto troppo complicato o faticoso e io non posso mai fare niente,

che sono poi tanti modi diversi per dire
ehi, ogni tanto ho bisogno di sapere che mi volete bene, che mi volete così tanto bene da poter soddisfare anche qualche richiesta irrazionale, solo perché mi rende felice.

Le richieste razionali, infatti, vengono soddisfatte solo perché sono sensate. Non importa voler bene a chi le presenta, sono giuste e perciò si risponde positivamente.
Quelle ingiustificate o superflue, invece, si soddisfano per il solo gusto di vedere quella Bambina, poi, saltellare via felice.

Lasciatemi in pace.

Non può essere che la mia felicità finisca – diciamo, venga sospesa – ogni volta che varco la porta della casa dei miei genitori.
L’ho aspettata per anni e non l’ho aspettata con le mani in mano, me la sono costruita a suon di compromessi, ho preso al volo ogni briciola di fortuna e l’ho piantata perché fiorisse. E ora non puoi minacciare di falciarmela via – se non mi dici dove stai ti verrò a inseguire – perché non dipende da te, perché non c’è quasi niente di te, sì, giusto il benessere economico di base e quel po’ di cultura che mi hai passato, per il resto l’ho tirata su nonostante,

nonostante la vostra soffocante ansia, nonostante i tentativi di aiutarmi asfissianti e completamente sballati, fuori fase, scollegati dei miei veri desideri,

che sarebbero semplicemente essere lasciata in pace, potermi godere finalmente, dopo anni inchiodata a un letto, a una stanza, alle vostre mani che mi portavano al cesso, potermi godere l’inebriante sensazione di essere sola.

Sola.

Dietro una porta che nessuno aprirà se non la apro io per prima.
Davanti a un paesaggio che potrò guardare per tutto il tempo necessario, senza che nessuno mi interrompa per assecondare qualche mio teorico bisogno che naturalmente non ho espresso.
Dentro una stanza che creo come mi piace, e dove ogni cosa rimane sempre come l’ho lasciata.

Non mi interessa se, dopo lunghe e diplomatiche trattative, potrei ottenere il rispetto della mia solitudine. Non mi interessano le promesse che tanto no, non verrete. Perché so molto bene due cose.

La prima è che avrei sempre, comunque, paura. Non potrei davvero fidarmi della vostra assenza. Le prime volte che uscivo di casa da sola continuavo a guardarmi le spalle, non mi sembrava vero che non foste dietro di me, ad accompagnarmi. I vostri maledetti cani da guardia me li avete infilati in testa da piccola e ora no, non usciranno più, ne sentirò i passi in fondo al cervello per sempre. Per vincere questa irrazionalità, ho bisogno delle certezze razionali più stringenti. Ho bisogno di sapere che no, in nessun modo potreste raggiungermi.

La seconda è che nessuna promessa varrebbe più della vostra ansia. Se per qualche motivo, vero o falso non importa, mi pensaste in pericolo, voi verreste. Considerando che mi credete in pericolo anche quando ho 37 di febbre, la cosa mi angoscia un po’.
Non sono così sola da non poter ricevere soccorso. Non abito in un igloo al centro dell’Antartide e molte, molte persone sanno dove abito. In caso di bisogno immediato, ho una lunga lista di persone autorizzate a occuparsi di me. E’ passato a loro il testimone, rassegnatevi. Il dopo di noi, tanto caro a te, mamma, nei tuoi bei convegni, me lo sono organizzato in modo efficiente. Mi sembra che abbiate più difficoltà voi a rassegnarvi a questo.

Lasciatemi in pace.