Conto sulle parentesi quadre.

Dalla mia finestra (in alto, in alto al sesto piano) ho osservato per anni una vecchia casa colonica, rimasta non si sa come a pochi passi dal centro del paese. Ero abbastanza vicina per vederne le finestre, le crepe più grosse nei muri e i panni stesi fuori, quando ci abitava ancora qualcuno. Ero abbastanza lontana per non accorgermi che si trattava di un qualsiasi rudere pericolante, circondato da un confuso fogliame incolto, e forse abitato da zingari.
Ero abbastanza sognatrice per cancellare con l’immaginazione tutto quel che c’era intorno, e sentirmi un po’ in campagna. Per passare ore a guardarla dalla finestra, inventando storie su quando ancora lì c’era il grano e il buio era davvero buio. Prima o poi – domani, dopodomani – sarei scesa per vederla da vicino, mi dicevo.

-> L’hanno abbattuta qualche anno fa, senza che ci fossi mai andata davvero.

[Ora abito in un posto altrettanto bello]

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Inutile raccontare in quanti modi diversi ho immaginato, che so, il primo bacio. Sono esperienze di chiunque – basta moltiplicarle per un numero di anni un po’ insolito. Da quello col migliore amico a quello sotto al portone di casa in una notte d’estate a quello leggendo un libro alla Paolo e Francesca e mille altre patetiche versioni.

-> E’ successo invece in una maniera davvero orribile, che non avrei mai previsto.

[Ora succede abitualmente, in modo perfetto]

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Ho passato quasi tutta la mia carriera scolastica battibeccando coi professori. Litigavo e mi affezionavo più di tutti.
Mi arrovellavo su come io avrei potuto fare meglio. Su come non sarei stata noiosa. Mi figuravo di affascinare i miei studenti, di affabularli alla Keating – o in modo appena un po’ più cinico e realista. Mi vedevo a sfruttare le mie doti di teatrante dilettante per leggere con espressione e innamorarli di un poeta. O a incontrarli per caso nei corridoi, facendomi raccontare le loro crisi adolescenziali.

-> Ecco, non so cosa scriverci, qui. Sto per lasciar fallire anche questo sogno, e lo farò volontariamente, per il mio bene (?); per non rischiare di vederlo fallire da solo, ma in modo peggiore, dopo molti altri – noiosissimi – anni di studi.
Per non trovarmi di fronte a una realtà dei fatti assai meno poetica del previsto, per non finire annoiata a spiegare cose che mi annoiano – e che, molte volte, mi sembrano anche un po’ inutili. E per non dover scoprire che, fuori dal mio mondo immaginario, non sono in grado di parlare con adolescenti così radicalmente diversi da me – e non solo dalla me adulta, ma da tutte le me che sono mai stata.

Però mi dispiace. Avrei voluto vedere che effetto fa realizzare almeno uno dei vecchi progetti. Continuo a dirmi che è meglio così, eppure lo vivo come una specie di lutto.
Bisognerebbe avere una finestra sul futuro, da poter aprire almeno due o tre volte nella vita, nel momento di scegliere una strada. Uno si affaccia, vede come andrebbe a finire la storia, e poi decide.

Così, invece, mi rimane, – rimarrà sempre? – a tarlarmi la testa, il dubbio di come sarebbe stato.

[……… ? ………]

Pellegrinaggi

Dovevo pur raccontarla a qualcuno, la mia prima estate felice.

Prima ho cercato una vecchia prof. Ho tentennato molto nella solita paura di disturbare, poi ho deciso che era più grande il bisogno di raccontarmi. Come sembrava più piccola e grigia, senza il ruolo a difenderla. All’improvviso, aveva persino opinioni qualunque, anziché risposte divine. Potevo saperne di più su qualcosa, circoscrivere una paura (a M.? Hai fatto servizio civile a M.?), esporre progetti di vita.
Ma soprattutto, dovevo farle sapere che sono felice.
Mi ha regalato un braccialetto a portarmi fortuna.

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Poi, sono tornata dalla Cri, dopo altri tre anni. Andarla a trovare è sempre una specie di viaggio esistenziale; come tornare da un vecchio genitore, con cui però riesci a parlare apertamente.
Tre anni fa, dovevamo ripercorrere e aggiustare i ricordi di un’infanzia tormentata (la mia), che lei vide molto da vicino.
Stavolta, avevo una felicità da raccontare – con la soddisfazione di fare una sorpresa a chi forse (come me) non l’avrebbe mai detto.
Dovevo farle anche alcune domande, per comprendere le cose che non ricordo e interpretare quelle che ho sempre guardato da un punto di vista soltanto. Non ho scoperto niente che davvero non sapessi – un padre buffo, una madre performante, una sorella con qualche paura. Un matrimonio che forse procede più come progetto che per amore. I figli che tengono enormi distanze, come per fargli pagare qualcosa, non si sa bene cosa.
E poi educatrici che non servivano, che avrebbero potuto essere soltanto assistenti e dare una mano in casa, ma non si prevedeva niente del genere per i minorenni, la prassi era quella. Senza contare le pressioni di mamma per avere sempre più ore di assistenza, perché non fossi quasi mai sola. Il servizio sociale che ha fatto un errore a non opporsi.

Fa effetto, sentirselo dire chiaramente. Come arrivasse un’infermiera a dirti che è vero, se oggi sei così, e se per metà della tua vita hai lamentato atroce mal di pancia, è perché quel dottore, anni fa, ti ha lasciato una pinza nello stomaco. Ma quando urlavi e piangevi dicendo di sentirti lo stomaco a forma di pinza – avevi un’idea molto chiara della situazione – beh, ti zittivano come fosse un problema immaginario.
Ormai ho consumato la rabbia, e la pancia me la sono aggiustata da sola, col tempo.

Adesso fa piacere pensare che almeno lei se n’era accorta, che se ne fregava del mansionario (avevate bisogno che facessi la spesa, chisenefrega se non era “nelle mie mansioni”… anche perché cos’altro potevo fare? Insegnarti qualcosa? Te tra un po’ mi parlavi in latino…) e si faceva rimproverare perché si stava invischiando troppo, si faceva coinvolgere, creava un precedente scomodo per i colleghi.
Chissà se almeno è stata un’esperienza utile. In fondo la Cri ha fatto carriera, e forse ora prende lei quel genere di decisioni sull’assistenza alle famiglie. Qualcuno sarà più fortunato.

Il tempo ch’è passato si vede dai suoi nuovi acciacchi e dal nostro non saperci più abbracciare. Ma solo parlando con lei mi resta addosso quel senso di totale comprensione.
E’ l’unica a sapere esattamente di cosa parlo, quando racconto dei miei o di qualche vecchia me; lo sa direttamente, per averci vissuto, non secondo teorie o interposte persone. E può capire anche certe mie aspirazioni; mentre raccontavo episodi del servizio civile sembrava quasi di parlare tra colleghi – in fondo, anche se a distanza, potremmo diventarlo.

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Ai miei non posso dire della mia felicità, naturalmente. Per uno di quei motivi che non so.
Però una mail ironica sono riuscita a scrivergliela, comunicando nel solo modo che sappiamo: il bonario insulto e l’ironia. Ho speso appena più delle solite due parole, e ho condiviso banalità come la scelta di un corso di studi – eppure mi sento quasi nuda. Questo viaggio è ancora troppo difficile.

Volevo

E sotto quell’albero volevo dirti
– però dovresti fare qualcosa, se ti capita con tutti di non sentirti ascoltata
che si diventa cattivi per molti strani motivi, a volte si accumulano negli anni e non sai più distinguere bene
– adesso avrei un sacco di cose da raccontarti di me
nel mucchio di paure, difese, meschine sfide per capire quanto si è importanti
– però ho paura che poi tu dica che non ti sto a sentire
ma a un certo momento… non è che distingui chissà quanto meglio, però
– mi hai dato delle risposte troppo dure da mandare giù
ti commuovi
– mi hai fatto capire che non c’era più niente
e siccome per iscritto non rendeva granché,
– abbiamo già chiarito, non importa parlarne ogni volta
volevo in qualche modo
– io sono a posto,
anche se magari non lo merito
– certo non sono una macchina,
volevo, lì sotto l’albero,
Рnon so perch̩ la gente si aspetti da me
tipo
– che tutto in un attimo
abbracciarti.

Le Mille Porte

“Le strade di Fàntasia”, disse Graogramàn, “le puoi trovare solo grazie ai tuoi desideri. E ogni volta puoi procedere soltanto da un desiderio al successivo. Quello che non desideri ti rimane inaccessibile. Questo è ciò che significano le parole “vicino” e “lontano”. E non basta volere soltanto andar via da un luogo. Devi desiderarne un altro. Devi lasciarti guidare dai tuoi desideri.
[…]
Attraverso il labirinto delle Mille Porte ti può guidare solo un vero desiderio. Chi non lo ha è costretto a continuare a vagarci dentro fino a quando sa esattamente che cosa desidera. E questo talvolta richiede molto tempo”.

(Micheal Ende, La Storia Infinita, p. 240)

Connessioni sparse:
F. che si spegneva per mancanza di desideri – M. che seguiva da sempre un solo, vero desiderio – i pazienti che vagavano in cerca dell’unico desiderio impossibile – G. che lotta per distinguere i propri desideri da quelli altrui –
io che rimbalzo incerta, prigioniera tra le Mille Porte, illusa che ciascuna sia migliore.

Gioco d’azzardo

Potrei vincere di più. L’ultima mano. L’ultima poi smetto. L’ultima, ancora,
l’ultima, promesso, poi lascio,
è che può andare meglio,
dai ancora una,
un’altra, solo
promesso
una

[Salvatemi dal fascino della possibilità]

Cose da tenere a mente

per sopravvivere alle frustrazioni quotidiane (e per durare più di due mesi in un’eventuale professione sociale):

A volte fallisci.
Puoi sbatterti per mesi e vedere il tuo lavoro scavalcato in un secondo dalla cricca di potere. Per pigrizia, cavilli, piccoli interessi di cortile.

Le ingiustizie rimangono.
Puoi combatterle, ma a volte perdi. E non avrai mai il tempo di combattere per ogni cosa.

Non tutti i limiti si superano.
In genere sei molto brava a oltrepassare ostacoli e inventare strade alternative. Hai trovato soluzioni a problemi che non avresti mai sperato di risolvere.

Ma alcune non le troverai.

La giornata migliore

Comincia con tre ciotole blu, ultimi arrivati nella mia casa blu e arancione. Stanno così bene, vivrei in un mondo blu a chiazze arancioni. Prosegue con una telefonata inattesa, lunga e intelligente, sagace come sempre, di quelle in cui assapori la qualità del dialogo con una specie di piacere fisico. Poi è tempo dell’ultima ripassata, dimentico qualcosa come ad ogni generale, ma so bene di conoscere la parte.

Qualcuno mi precede addrittura, poi lo raggiungo e aspetto la fila degli amici, bacio di qua, bacio di là. C’è qualche grave assenza, ma me ne accorgo solo tardi – succede alle assenze ostinate, si allargano fino alla memoria.
Arriva il momento e si va veloce, dicono che abbia parlato con quasi sufficienza, io non saprei, ero impegnata a rileggere il copione nella testa e a dosare gli sguardi tra il muro e i togati, cercando approvazione nel millimetro di mento che s’inclina. Spiego anche come mai ho fatto un poco a modo mio, scegliendo testi che dicessero qualcosa, senza immolare alla linguistica il piacere. Se gioco al limite coi punti, tanto vale rischiare sulla carta che di solito funziona: mostrare personalità.
Quindi abbracci di rito, tra braccia che dei riti non hanno mai saputo nulla – perciò s’impastano, si aggrappano o si mancano. Qualche foto goffa, poi lo scherzo inesorabile, proclamare Moccia in strada con in testa una corona di cartone giallo, a dichiararmi regina dei libri spazzatura. La creativa dedizione di qualcuno mi commuove. Manca un po’ di iniziativa, ho amici troppo seri come me; ma col campo visivo ingombrato di alloro ti senti in grado di qualsiasi cosa, e allora Cathia ha il più bel culo d’Europa.

Più tardi, aperitivo a un tavolo strano: campioni casuali degli ultimi nove anni, incredibilmente capaci perfino di parlarsi; e una foto leggendaria col pilastro burocratico di Facoltà.
Quando riesco a defilarmi, finalmente coccole. Che più della laurea segnano un punto d’arrivo.

Infine, una cena a cui non avevo tanta voglia di andare, ma sapevo che in fondo era per me, avevano insistito troppo perché ci fossi. Un brindisi che non so fare – ah, queste maledette, sconosciute situazioni sociali! – ma in fondo sto diventando affettuosa anche verso le mie gaffes. Poi un regalo azzeccato, non tanto per l’oggetto – Gaber – ma per il valore, come un riconoscimento di identità. E comunque, riuscire a far cantare Destra-sinistra a un gruppo di ciellini dà una certa soddisfazione, per quanto ci fossero già precedenti.

Ah, dimenticavo la Bellezza. E’ stato scioccante vederla sbucar fuori all’improvviso, scrollando via con un gesto l’abituale, lardosa goffaggine che la soffoca in quel corpo. E non si tratta solo della qualità dei gesti e della recitazione improvvisata da un dilettante di talento; era piuttosto la bellezza di una specie di speranza – come a ricordarmi di avere fiducia, ché dal letame nascono i fior.

Finisce – la giornata – tornando sul vialetto con gli alberi di notte, che fanno un po’ paura – un filo di vento e già tremano, i pioppi fanno presto a frusciare forte fino al fondo dell’orecchio.
Mi fermo lì un minuto, chiedendomi quando sarà il turno del mio filo di vento – a me ne basta proprio un soffio appena, sto come d’autunno / sugli alberi le foglie. E poi ormai sono fregata, se davvero non ti tocchi chi più t’ama: l’ho toccata.

Ok, da oggi, chiamatemi dottoressa. (Ma anche no)

Avrei dovuto guardare Scrubs molto tempo fa.

“Il problema sei tu. Il fatto è che tu non sei capace di impegnarti perché significherebbe abbandonare tutte le fantasie d’amore inappagate che hai coltivato andando a vedere troppi film con Meg Ryan. E’ che gli uomini non risolvono tutti i problemi, sono esseri umani.”

(Scrubs, 2° serie, puntata 16)

Cassaforte – 3

Poi racconto degli scherzi che facevo – anche belli pesanti, da mandare in panico due poveri genitori. Leggevo troppi libri avventurosi con ragazzini ribelli e creativi, e dato che io non potevo arrampicarmi sugli alberi o giocare agli indiani nel bosco, mi accontentavo di chiudere in bagno il papà.
Non mi sgridavano troppo, in fondo. Solo se svegliavo la mamma, nascondevo oggetti o disfacevo la valigia appena chiusa.

Alcune cose erano ancora diverse da oggi, oltre che del tutto dimenticate. Un giorno Rita ha suonato la chitarra mentre i miei cantavano. Ho dovuto rileggere quel paragrafo due o tre volte prima di crederci.
E poi volevo ancora giocare con mio padre.

Sento rumori dietro la mia porta, papà starà posando il borsello sul comodino, è rientrato. Magari busserà per salutarmi e prendermi in giro come al solito, e io come al solito risponderò vattene, secondo il nostro abituale gioco di ruolo.
O forse potrei rispondere – c’è stato un attimo, un brevissimo attimo in cui avrei davvero potuto farlo: papà, perché la mamma non giocava quasi mai con me?

Perché da quando vi conosco dormite in letti separati?

Quand’è stato che ho smesso di parlarti?

E perché?