Monthly Archives: Luglio 2006

Campo vocazionale

No, non ho intenzione di farmi suora. L’han chiamato “campo vocazionale” solo per spaventare i novellini e dar modo ai pagani di prenderci per il culo. In realtà, sarà…
non lo so. Ecco, in effetti non lo so. E’ il mio primo campo di AC. Otto giorni.
Ci sarà un buon prete, e un gruppo di buone persone che conosco un po’, ma vorrei conoscer meglio.
Il resto chissà, vedremo.

Ho voglia di vedere come va a finire, ultimamente. Ieri notte stavo lì alla finestra, ché faceva troppo caldo, e pensavo toh, chissà come va a finire questa storia assurda.
Sì, dai, ch’è assurdo esistere lì su un balcone, parlandosi nella testa e immaginando le risposte possibili. E’ pesissimo accorgersi di esistere, roba che davvero ti volti e s’infrange l’aria di vetro – il fatto è che poi torni tra gli uomini che non si voltano tutto convinto d’aver visto chissà che, e invece quel segreto ti s’è ormai sciolto fra le mani. Forse non esisteva nemmeno, l’hai immaginato. E allora c’è solo da restar lì, su un balcone assurdo, a far le creature atterrite e ubriache d’universo.

Comunque, dicevo, questa assurdità è a suo modo appassionante, e son curiosa di veder come procede, cos’ha da raccontarmi il giorno che arriva, come posso respirare quello che sta passando. Si respira bene, di questi tempi.
Un po’ mi sto abituando. Non m’importa granché di partire, così come non m’importerebbe di restare. Starei ugualmente bene.
[Dipende sempre meno da quel che accade fuori. C’è come una sicurezza passeggera. Ossimoro?]

A presto

Per voi

"Faccio vacanze con San Giacomo praticamente da sempre, e ormai mi ritrovo nel gruppo organizzatore. Ci siamo visti una volta alla settimana, da Maggio, per preparare le serate di questa vacanza. Non è facile portare avanti questo impegno: lavoro otto-nove ore al giorno, e ho dei figli; quando torno a casa spesso non ho voglia di andare agli incontri… ma so che è importante per me e per tutti, e che dopo sarò contenta.

Immaginate le difficoltà di organizzare una vacanza per famiglie con bambini! Abbiamo molti bisogni: le stanze fatte in un certo modo, il bagno in camera… ci muoviamo già a dicembre per andare a vedere i posti adatti. Senza contare, poi, i tanti desideri e necessità diverse da conciliare: c’è il quarantenne da solo che vorrebbe far camminate in montagna di cinquanta chilometri, e la mamma con tre figli in braccio che stramazzerebbe dopo un minuto!
E’ difficile, ma è uno sforzo che val la pena fare. Le mediazioni alla fine si trovano, ed è bello tentare di venirsi incontro… perché l’unica cosa che conta davvero è stare insieme e creare dei rapporti".

[Avrei voluto ci fosse qualcuno, all’incontro di Imola, ieri sera. Anzi, avrei voluto ci fossero tutti i miei compagni, ad ascoltare quella signora che è riuscita ad esprimere così bene il mio pensiero. Poi forse non l’avreste condiviso, ma, almeno, l’avreste capito fino in fondo] 

Incubi maturi

L’altra notte ho avuto fisica in terza prova. L’ho svolta nel salotto di casa mia con Brighi seduto là davanti a controllare.
Oggi ho fatto il compito di matematica. A un certo punto se ne sono andati tutti, professori compresi. Ho mandato un messaggio a un amico ingegnere informatico per chiedere aiuto; intanto mi è apparso in aula un computer con internet, e io bella bella mi cercavo le soluzioni. Và, i miei sogni sono efficienti. 

[Ma allora è vero che la maturità si continua a sognare per tutta la vita o.o]

Falò

appunti in fiamme

 

Ho pensato a lungo a cosa poter buttare nel falò. Qualcosa di simbolico, ché gli appunti veri non li avrei bruciati mai, io che ho il terrore del tempo figuriamoci se comincio a distruggermi i ricordi da sola.
Così, mi son chiesta cosa brucerei dei cinque anni passati. Un esercizio di matematica no, dai, è scontato; una foto, per carità, non potrei mai gettar via nessuno, nemmeno i professori più rompicoglioni. Che strano, tutto prende un’aria leggera, ora ch’è finita. Non ho voglia di recriminare niente. E’ così comoda questa pace, adesso; mi darebbe fastidio risentir elencare da qualche frustrato i centoventiquattro motivi per cui questo o quell’insegnante merita indubbiamente il rogo.
Dai, facciamo una sanatoria, un’amnistia, almeno un indulto collettivo.
(La fai facile tu, razza di secchiona raccomandata)

Avevo pensato di portami un foglio vuoto, un foglietto quadrettato bianco, da bruciare. Perché forse le uniche cose che rinnegherei sono quelle che non ho fatto, che ho fatto troppo tardi, o che ho evitato per paura. Il tempo perso, le occasioni andate, i pensieri mai pensati e quelli rimasti a galleggiare nel limbo del possibile. Il resto, le cose fatte, sono servite a rendermi quel che sono – e diciamocela tutta, non mi faccio proprio schifo, và.
Alla fine non ho bruciato nemmeno il foglio bianco, m’è rimasto in tasca. Vorrà dire che dovrò impegnarmi per scriverci qualcosa.

E questo è il Fermi…

scaffale coi libri di scuola

Ho messo via i libri, l’altro giorno; stavano ancora sparsi per il letto, il tavolo, il comò. Dopo l’esame sistemo, dicevo; ed eccolo arrivato, il dopo l’esame. Ho attaccato le casse al pc, ché un po’ di colonna sonora ci vuole mentre si riordina, Il signore degli anelli e Amelie.
S’apre un libro per sbaglio. Scarabocchi, i miei soliti disegnini a margine, fogli che svolazzano.

E’ veramente finita: lo leggo nelle vecchie calligrafie, nella polvere che si solleva scartabellando lo scaffale, in quel tema di prima che toh, chissà da dove salta fuori. Ci sono le correzioni della Seggy, di quando era ancora una prof qualunque un po’ pallosa; e guarda io, come scrivevo male cinque anni fa.

Cinque anni fa. Ero un cartoccino disastrato in disperata ricerca di rapporti umani decenti, e mi portavo addosso il mio caratteraccio sfilacciato. Si trattava d’iniziare a rattopparlo – e di trovar qualcuno che mi desse una mano.
Poi dev’essere successo, in qualche modo: giorno per giorno, non so come, abbiam cominciato a disfarlo e ricostruirlo, cucendomi addosso qualcosa di nuovo. E il telefono squillava e le notti s’attraversavano ridendo, in giro con gli altri – quelle notti che finivano ancora alle undici; e quando mi chiesero se stavo bene in classe, io potei rispondere: sì.
La scuola non era ancora troppo faticosa, anche se già sapevo di averla sbagliata (e perché hai fatto lo scientifico?); quasi ci si divertiva, battibeccando con la prof appollaiata dietro a spiare se risolvevo gli esercizi. 
Dopo, accadde l’Amicizia. Quella dolcissima che mi scaldava dentro perché era la prima, perché mi diceva ti-voglio-bene quando ancora ascoltavo ogni sillaba cadere lentamente con un suono nuovo; mi sembrava strano potersi leggere negli occhi e capirsi, condividendo se stessi.
In terza, girata la boa, ho iniziato a sentirmi addosso lo scorrere del tempo; e da qualche parte, in un angolino in fondo, è scattato il conto alla rovescia. Non avevo mai avuto quasi nulla da perdere: ora l’avevo e mi venne paura.
Ho visto la gente cambiare, è arrivata l’Ele, mi sono incazzata con Pardo, gradualmente ho smesso di credere nella Classe, scegliendo di fidarmi (il giusto) delle Persone. Ho vissuto con un’intensità particolare, che non sarebbe tornata, e che adesso riguardo distante, un po’ sorridendo di me. Con la stessa intensità ho preso le mie bastonate, quelle del cambiamento e della nostalgia.
L’anno dopo c’è stata Barcellona, i discorsi notturni in cui misurai la differenza tra come apparivo e come mi pensavo; e poi quel lanciarsi a capofitto in attività nuove, provando un vasto guardaroba di maschere in attesa di scoprire quella migliore.
Infine la quinta, un po’ di pace rassegnata. I corridoi che non si percorrono mai senza salutare un passante – ormai per un motivo o per l’altro sbucava sempre da ogni aula qualcuno che conosco.

E la scuola sempre lì, sullo sfondo. A farmi conoscere persone (quelle Importanti), uscendo o studiando assieme; a recuperare qualche idea di seconda mano o a tirarmi fuori determinazione, incazzosità o capacità di mediare.
Forse non c’entrano questi libri, allineati in modo quasi ordinato – come riesco a fare soltanto con le cose che non si usano più. In fondo quasi tutti rappresentano il tempo perso a far roba che non m’importa, studiatone d’emergenza a sera tardi, casini per interrogazioni (poco) programmate.
Eppure fanno parte anche loro di una fase, di un ambiente che non ho mai vissuto troppo male, nemmeno nei periodi più impegnati.
Così, mi fa un po’ effetto vederli lì, messi via, ordinati. Come cose che non si usano più.

[…Questo è il Fermi
e in quel suo torbido
mi sono rimescolata
e mi sono conosciuta
]

(Tiriamocela un po’)

100

Notte prima degli esami

Lo so che sarebbe più poetico passarla sotto la finestra dell’amato, ma queste cose accadono solo nei film con Faletti. Noi comuni mortali, invece, la passiamo a stampare sei copie di tesina – scritta in caratteri enormi, con interlinea doppia e quadri di Gauguin a tutta pagina (nooo, non è che voglio allungare il brodo) – da lasciare ad altrettanti prof, giusto per illudersi di far figura.

Ora, non diciamolo a nessuno, ma a me ‘sta tesina piace. Racconto in giro che fa mmerda (con due emme, ché puzza di più) solo per mettere le mani avanti – e perché so che, onestamente, non è proprio facile facile capire come mai mi sia andata a scegliere un argomentullo vago, senza nodi problematici o dibattiti incazzosi da portare avanti. Che so, "dal materialismo all’utopia" di Lollo era molto più figo, va’, ce l’aveva scritto in fronte lui, grondava ancora dei dibattiti scolastici teo-politico-filosofico-social-comunistoidi. Ma perché non una bella tesina sulla divina apparenza di battiatica memoria, per inveire in qualche modo contro questa società superficiale, vana, sbrilluccicante e priva di mezze stagioni? Oppure una bella scissione dell’io, tipo le maschere pirandelliane, in onore delle mie famose 465 personalità.

[In questo momento è entrato papà – storico dell’arte – e ha intravisto i quadri di Gauguin della tesina. "No papà non li conosci, sono moderni". "Uffa. Potevi sceglierti un argomento medievale"]

E invece, che mi vado a cercare? L’immaginazione. Realtà percepita e realtà immaginata. Nemmeno si capisce che significa, va’. Forse non l’ho capito neanch’io.
Non è vero. Io l’ho capito perfettamente, e so perché l’ho scelta.

Un po’ per sfida, per togliermi di dosso la toga d’avvocato che a volte mi diverto a indossare: è vero che mi piace argomentare e dibattere ed eventualmente incavolarmi, ma di me non può restar soltanto questo.
Soprattutto, però, l’ho scelta perché a volte, se vado per le stradine finte di un parco, alla sera, fra le camminate dei vecchi, i passeggini che piangono, le mamme e le corse sudate del jogging, mi pare d’intravedere qualcuno che non c’entra. Uno qualunque, uno dei tanti che s’incontrano nei pensieri quando si ha il coraggio di camminarci dentro dimenticando il resto. Spesso si fanno trovare in posti particolari, hanno il loro cantuccio preciso dove dormire, in attesa che io passi a trovarli; e appena li sveglio arrivano a sedermisi accanto, per raccontarmi qualcosa o ascoltarmi parlare.
Dicono che non sia vero. Che i passeggini e i vecchi e le mamme mi si stampino negli occhi in modo diverso, reale, concreto; mentre loro, quelli che s’incontrano nei pensieri, spuntano clandestinamente da qualche angolo di memoria, senza esistere. Pare che non c’entrino, con la realtà. Sarà. Con me, però, c’entrano più di tutti gli altri.

Così, capirete, quando ho sentito questa m’è venuto un po’ da sorridere.

All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione.

E’ l’una, sarà meglio andare a dormire. Domani devo prendere il diploma di una scuola sbagliata, piena di casini e contraddizioni e cose che non m’importano. Devo anche farmi interrogare, per l’ultima volta, da quei sei tizi che mi hanno annoiato, interessato, divertito e fatto incazzare per un numero variabile di anni. Dietro ci sarà pure un settimo tizio – ma ovvio che la volevo al mio orale, tzè! – che ormai se la gode abbronzandosi tutto l’anno alla faccia nostra. Ehi, da domani sono in vacanza anch’io. Niente più matematica, scienze, rotture varie. Bello, sì.
Ma di una bellezza strana, che devo ancora capire fino in fondo, e che ho quasi paura di assaggiare.

Fermo nel traffico

M’ha detto che sta lì da giorni, porca miseria. Ci dev’esser stato un incidente, dei lavori, o che so io. Forse un esame. Ma può darsi che non me la racconti giusta, ogni tanto s’inventa un alibi per arrivar tardi; tzè, lo conosco io. Se gli piglia il periodo storto s’incanta a fissare un palo della luce, un gatto per strada, una cartaccia in terra, o la traccia di un’aereo disegnata in cielo – quelle sono le peggiori, lui resta lì, cretino, finché non passa una nuvola più grossa a cancellarle – s’incanta, dicevo, e non torna. Telefona dopo un’ora scusa eh, arrivo subito. E’ il subito che non arriva mai; tocca aspettare i suoi porci comodi, tocca.

E intanto, io che faccio? Vuoto. Aspetto in questo vuoto che non dice nulla, che non significa nulla. Mi perdo anche delle cose, vè, ché senza di lui sto un po’ rincoglionita, mi s’annebbia la vista, s’ingrigisce il colore. Non c’è niente da fare.
Cioè, c’è un sacco di roba da fare, ma quella non conta. Le coincidenze e le prenotazioni, dico: non contano, più ti occupano il tempo più quello resta vuoto. D’altra parte il fannullone sembra nasarle in anticipo, queste cose. C’è da fare? Tocca studiare, sistemare, chiamare, correre? Bene, quello piglia e scompare. E io con chi lo scendo il milione di scale?

Oh, m’assicura che tra un paio di giorni torna; certo che su quell’autostrada dev’essersi rovesciato un autocarro, per far tutta ’sta coda, eccheccavolo. Sempre che non sia una scusa. Bah. Però me l’ha promesso: dopo il 4 sarà tutto per me. Dice che ci leggeremo qualcosa insieme, che andremo a perdere bellissime giornate al parco di sera. Ci metteremo a scrivere tutto quel ch’è rimasto in lista d’attesa finora, riprenderemo un po’ le fila di un tempo che sta andando via senza esser raccontato. Ma sì, mi rimetterò in pari, appena ritorna il mio sfaticato Pensiero, fermo nel traffico.