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Normalità

C’è chi passa la vita a sforzarsi per distinguersi, e chi non aspetta altro che diventare normale.

La normalità ormai è un concetto denigrato. Non si fa altro che relativizzarla, spiegare che nessuno è normale, o che tutti sono normali, o che la normalità non esiste. Siamo pratici: la normalità esiste. Non come concetto rigido cui uniformarsi per forza, ma come insieme di piccole cose comuni che le gente di solito fa. Alzarsi la mattina per andare a scuola o al lavoro è normale; alzarsi senza poter uscire dalla tua cella perché sei carcerato non è normale. Andare a farsi una passeggiata è normale, non uscire di casa perché sei paralizzato in un letto non è normale. Non raccontiamocela, è così che stanno le cose.

Poi è chiaro che ciascuno si costruisce la propria rappresentazione della normalità. Immagino che la normalità di Ruby sia molto diversa dalla mia, ma non divaghiamo.

Il punto è: ci sono persone che si rappresentano la normalità come quella brutta cosa conformista cui si attiene una maggioranza ignorante e modaiola, dalla quale bisogna assolutamente distinguersi. Essere diversi diventa allora un valore, e la propria normalità si costruisce in opposizione a quella ritenuta comune.

Per altri, la normalità è una specie di utopia. Sono già troppo diversi, perciò non desiderano certo diventarlo ulteriormente; anzi si sforzano di trovare quella benedetta normalità e invidiano chi facilmente la possiede. Nelle piccole cose, quelle che magari uno non ha mai fatto e ha sempre voluto fare; non perché si tratti di attività così meritevoli, ma solo perché, facendole, ci si sente un po’ più parte del resto del mondo, un po’ meno esclusi, un po’, per una volta, come tutti gli altri.
Che sarà anche una condizione offensiva per le anime superiori; ma a volte, sapete, per chi non lo è mai stato può essere rilassante, quasi commovente, poter dire di essere come tutti gli altri.

Io ho cominciato ad assaggiare la normalità soltanto all’inizio del liceo, e l’ho amata in ogni sua banalità. Fare le pizzate di classe, andare in discoteca, al pub, a casa di amici. Per una volta far fuga da scuola, tenere la testa a un’amica ubriaca o vedere il compagno più grande che rolla una canna.
Intendiamoci: alle pizzate stavo quasi sempre zitta, in discoteca mi annoiavo a morte, le amiche ubriache sono molto deprimenti e verso le canne non ho mai avuto interesse. Ma non contava: l’importante era poterlo fare. Esserci. Allargare il mio misero bagaglio di esperienze, avere qualcosa da raccontare e riuscire a capire i discorsi degli altri senza sembrare un’aliena né un’ingenua, e senza giudicare le cose secondo l’astratta moralità infantile di chi conosce molti sacri principi ma non è mai uscito da camera sua. Volevo toccare con mano.

E, soprattutto, volevo essere un po’ meno diversa. Avere finalmente esperienze confrontabili con quelle degli altri, potermi sentire “simile”, almeno in qualcosa, anziché sempre un caso a parte; poter dire “c’ero anch’io”. Non ti sembra una cosa così stupida, quando, per anni, non c’eri mai anche tu.

Schifare la normalità è un privilegio riservato a chi può averla quando vuole. Un privilegio che finalmente posso prendermi, riguardo a tante cose: non m’importa di andare in discoteca e non esco per forza con tutti, se so di annoiarmi.

Però mi piace ancora, ogni tanto, rilassarmi nella normalità, sentire quel rassicurante caldino interiore che mi lasciano i riti condivisi, i banali passatempi con cui la gente, di solito, scandisce la propria vita, senza stare troppo a chiedersi perché e percome. Ci sono già anche troppe cose importanti su cui interrogarsi e filosofare, troppe per cui lottare, troppe da selezionare secondo una ponderata scala di priorità; e su queste cose ho già speso senz’altro buona parte della mia esistenza.

Sulle altre, per favore, concedetemi di essere normale.

E per questo san Valentino

(…di cui, onestamente, non m’importa granché) non invidierò nessuno.

Lancette

– Secondo me questi secondi non sono giusti
ha detto guardando la lancetta girare. Nicola teneva in mano un orologio da parete con la lancetta a movimento continuo, anziché a scatti, e lo guardava perplesso.
– Uno, due, tre, quattro…
Ci scambiamo uno sguardo, noialtri, trattenendo una risatina. Vorrà davvero contare a voce alta tutti i 60 secondi?

La padrona di casa era in giardino col cane, noi dentro a bighellonare in attesa del pranzo. Nicola ciondolava gobbo come al solito, con la faccia segnata da vecchi brufoli e l’occhio spento. Guardava sempre da sotto in su, con le palpebre mezze abbassate e la bocca semiaperta, nell’espressione di chi fa il verso a un handicappato per deridere uno stupido.
E si faceva ospitare spesso da lei, con qualunque scusa, sperando che, per una notte, non si dormisse soltanto.
– Dieci, undici, dodici…

Sul letto un libro di storia greca, il suo prossimo esame. Sperava di studiare un po’, nei momenti vuoti – magari quelli in cui lei lo smollava da solo a casa per andare ad allenamento, o fuori col cane, o a costruire staccionate in cortile. Succedeva spesso, ma lui era abituato ad aspettare, a telefonare tutti i giorni, a pregarla invano di uscire da soli o dargli un bacino.
– Ventisette, ventotto, ventinove…
– Guarda che conti troppo lento – gli ho detto, osservando la lancetta già oltre l’otto.

Nicola ignorava il mio avvertimento e continuava a contare, cantilenando. L’altra vicina badava ai fornelli, noi restavamo sul letto a guardare uno spastico inseguire i secondi. Sputacchiava un po’ le parole, ma tutto sommato se la cavava a parlare.
Mi sono chiesta quando si impara il senso del ridicolo. Chi ci ha insegnato a capire cosa è opportuno e cosa no. Perché a noi la scena sembrava evidentemente patetica,
РTrentadue, trentatr̩
e a lui un giochetto come un altro. Come mai lui non sa ancora che, avendo ricevuto uno, due, tre rifiuti, è più dignitoso dileguarsi
(sms: ti posso chiamare?)
anziché mendicare una pietosa risposta.

– Quarantacinque, quarantasei
Mi è tornata in mente un’amica che, per deridere chi dice un’ovvietà, si produce nella grottesca imitazione di un handicappato, parlando come se avesse una spugna in bocca e agitando stranamente le mani. Lo fanno in tanti, e per tutti il significato è chiaro.
Mi sono chiesta cosa vede la gente in un ragazzo gobbo e butterato che incarna quell’imitazione, biascicando e muovendosi al rallenty, coi muscoli contratti dalla sua spasticità e il sorriso storto.

РCinquantadue, cinquantatr̩
E quindi cosa impara, di sé stesso, un ragazzo che ha la faccia e il portamento dello stupido – per come la società ha definito, per come tutti lo riconoscono. A quali aspettative finirà per adeguarsi.
Ha avuto già fortuna a vedersi ancora abbastanza intelligente da prender tutti trenta e lode alla facoltà di filosofia.

– Cinquantasette, cinquantotto
Ma non ne ha avuta abbastanza per sentirsi in dovere di sfuggire al ridicolo e di non cercare pietà ostentando bisogni; né per accettare le realtà più scomode

– Sessanta
che siano lancette ben oltre il minuto, oppure un amore non ricambiato.