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Ritorni – 3

Ciao!, quindi. Che bello rivederti, come stai, quanto tempo – hai un sorriso troppo tirato, bionda – su cosa fai la tesi, bene, bene, ma quindi come stai – me l’hai già chiesto, non ricordi? – e cosa fai qui, bene, bene, allora
(scusa ma tu come stai, davvero? – avrei chiesto, se mi avesse dato il tempo – E’ vero che coi tuoi hai problemi e
ho fatto oggi la maturità, era italiano, sì, bene, bene
(te ne vuoi andare di casa? Ma sai che mi viene in mente quando l’educatore mi chiese se potevo parlarti, riuscire a stabilire un contatto, perché eri sempre così cortese ma insieme distante, nessuno poteva capire
quindi ti laurei, e in cosa, ah, ma cos’è didattica dell’italiano?
(esattamente cosa ti succedeva e perché chiamavi fratelli quei tizi che poi si è scoperto non erano mica tuoi parenti, e sulla tua famiglia non si capiva mai niente
ma quindi come stai, bene, dai, son contenta
(certo che sto bene, e sai perché? – volevo dirle – Ti ricordi quel giorno che venni ai piedi del tuo letto e non so come venne fuori il discorso che ora non è più la stessa cosa, coi ragazzi, che non potevi nemmeno truccarti da sola, e i capelli, com’erano malmessi, ci tenevi tanto, si vede dalle vecchie foto che eri una fighetta di prim’ordine, e io, io non sapevo cosa rispondere, io dentro di me pensavo sì, hai ragione, adesso sarà un casino tesoro, e non certo per il trucco, adesso ti schiferanno e non basteranno più le tette, per le ragazze è anche più difficile che per i maschi, loro possono contare sullo spirito crocerossino delle donne, ma gli uomini, figurati, altro che crocerossini, hanno una paura fottuta, lo dicono anche le statistiche, che le donne disabili sono nella merda, nella merda, ecco ti ricordi di quel discorso, volevo dirle, ecco ricordatelo bene e sappi che

non era vero.

[Naturalmente, nulla di tutto questo è stato detto: solo Ciao!, abbraccio di ferraglia, come stai, io bene, tu, e l’esame, la tesi, ciao, tante cose.]

Ritorni – 2

In corridoio ho incontrato Anna. Un Ciao! biondo di entusiasmo, uno scontro di ferraglia per abbracciarci. E’ tornata in ospedale per una brutta piaga, oggi ha fatto lì la prima prova della maturità.
Me la ricordo la sua classe, quando andammo alla sua scuola, per spiegare la situazione ai compagni. Certe ragazze erano molto partecipi, chiedevano, s’interessavano. I maschi, con la codardia degli adolescenti, stavano tutti assieme in una fila, zitti, con lo sguardo chissà dove. Insieme alla mia capa li feci ridere, raccontai di me, spiegai che si può andare in gita anche così, mostrai come ci si sposta su una sedia.
E sbagliai tutto.

Ricordo quanto avevo discusso con l’educatore sulla possibilità che partecipasse alla gita scolastica subito dopo le dimissioni. Lei voleva, era carica di un entusiasmo raro per una neo-tetraplegica, di solito hanno paura, di solito si vergognano, o pensano di non poter più fare nulla. Mi pareva un delitto castrare lo slancio.
L’educatore parlava dei rischi, delle piaghe che spuntano così in fretta, a star seduti troppo a lungo sopra un pullman. I medici la pensavano allo stesso modo: in gita non andò.

Ora stava di nuovo in ospedale, da mesi, proprio per una piaga bruttissima.
Mi hanno spiegato che si trascurava, che voleva fare tutto, troppo, e così le è andata male.

[continua…]

Ritorni – 1

Sono tornata all’ospedale del servizio civile.

Davide ha sempre più muscoli ricoperti di lentiggini, e ha imparato a saltare sulla carrozzina quasi agilmente. E’ quello che all’epoca avevo trovato su una barella in sala computer, con aria spaesata. Quel primo giorno mi disse dei suoi viaggi intorno al mondo, dei mille sport; gli feci vedere su internet qualcosa che avrebbe potuto ancora fare.
In meno di un anno – dopo un “no, il basket proprio non fa per me, guarda ci vado solo per conoscere qualcuno come me” – si è infilato in una squadra di serie A che si allena tutti i giorni e se va bene lo pagano pure.
Con la chitarra – quella che “eh adesso faccio fatica, ho disimparato, poi non so più come fare a tenerla comodamente…” – si è rimesso a studiare e medita di diventare insegnante. Ogni tanto – lui che “io non ho mai toccato un computer, io facevo lavori manuali, o uscivo fuori, ma che è il computer…” – mi scrive su facebook o si fa trovare su skype.

– Che dici, tu che hai viaggiato un sacco – gli chiedo, appollaiata al suo letto – dove potrei andare st’estate?
– In vacanza? Va’ in Irlanda, io lì ci tornerei. Però si guida a sinistra, devi trovare qualcuno che sappia andarci…
– Praga – consiglia il vicino di letto. E’ un sardo sornione di mezz’età, dalla voce tranquilla, mai visto prima. – Certo, se non sai fare i gradini impennando te ne resti in albergo
– Eri andato da solo?
– In nove. Nove tutti in carrozzina: la mia squadra di tennis. Se ci sei già stata, allora prova Budapest. E se no Vienna. Bucarest. Polonia. L’est: l’est l’ho girato, è bellissimo; certo, ti devi un po’ adattare. – Ha elencato i suoi viaggi con poche parole, discretamente – Dublino. Ovviamente Parigi, Londra. Amsterdam…. – e ai miei tragicomici racconti d’interrail annuiva con placida cortesia, senza troppo ridere.
– Lui è un altro di quelli fortunati – mi ha poi spiegato Davide – incidente sul lavoro, sai.. quindi ha tutto. E dopo l’incidente ha messo su due società. Mi ha regalato una carrozzina da quattromila euro, tanto, non la usa mai…

[continua…]

*** EPILOGO ***

I colleghi più stretti ci hanno salutato brevemente nella biblioteca con the alla pesca e qualche dolcetto. Mi avevano avvertito di invitare anche qualche paziente, se volevo, ma sapevo di avere ormai pochi inviti da fare: molti se n’erano tornati a casa, e ultimamente non mi ero impegnata per conoscerne di nuovi, forse per vaccinarmi dal distacco.
Solo più tardi sarebbero saliti a salutarmi Claudio e un altro ragazzo, uno che avevo conosciuto nei primi tempi del mio servizio e che ora, dopo vari mesi, tornava per un secondo ricovero.
La sera prima mi aveva fatto vedere le sue vecchie foto rimaste su facebook.
– Guarda in questa foto, si intravede una mia mano. Guarda che belle mani che avevo.
Mi ero impegnata a balbettare tutte le risposte banali che mi venivano in mente, sapendo benissimo che erano tanto vere – perché in realtà non ha affatto delle brutte mani, per essere un tetra è molto fortunato, è autonomo e riesce anche a camminare – quanto inutili. Sapevo che non potevo capirlo, che non potrò mai capire davvero com’è rimpiangere un corpo.

In biblioteca l’altro serviziocivilista, che finiva il servizio con me, ha letto ai colleghi un breve saluto colmo di buoni sentimenti che terminava con un salmo. Io l’ho improvvisato – il saluto, non il salmo – facendo ridere i colleghi ma tentando anche la sincerità: su quanto ho imparato, su quanto ammiro certe persone e l’ambiente di lavoro che hanno saputo creare.

La festicciola mancava di enfasi, anche perché l’addio era fittizio: mi hanno fatto un contratto a progetto, per cui continuerò a lavorare lì anche nei prossimi mesi.
Più “dietro le quinte”, probabilmente; d’altra parte come… consulente dei pazienti credo di aver fallito – troppo diverse le nostre vicende, un po’ maldestra io con certi tipi di persone – e viceversa ho scoperto di giocarmi ottimamente in altri ambiti.

Non dubito che, comunque, incontrerò di striscio un sacco di altre storie che mi affascineranno, degne di essere raccontate.

Ma ho deciso che non le racconterò, non qui, per un po’.

Ho dedicato un anno di blog alle vite in sopravvento sulla mia: ora, riguardo alla mia, ho sicuramente qualche arretrato da raccontarvi.

[…fine.]

Senso – 2

I cerebrolesi non sono più loro, volevo dirle. Loro sono vivi, ma la loro identità è morta il giorno che si sono schiantati da qualche parte staccandosi un pezzo di testa. Mi è tornata in mente la testimonianza di una signora che, dopo un annetto di coma e dieci di rincoglionimento a vari livelli, aveva ripreso pian piano tutte le sue funzionalità, e ora stava su un palchetto a raccontarlo. Diceva: “io ero io. Sono sempre rimasta io“.
Certamente la sua storia mi aveva interrogato. Ma è una su tantissimi, e penso che, per i molti crani deformi che vedevo ciondolare fuori dal reparto, si potesse già escludere un epilogo così fortunato. Mi domandavo seriamente che senso avesse continuare a vivere, per loro.
Questo, però, era troppo politicamente scorretto anche per l’ultimo giorno di servizio civile. Così mi sono limitata ad assecondare la perplessità esistenziale della dottoressa.

– Dev’esserci qualcosa che rimane, anche in loro – ha continuato lei. – Dev’esserci un senso.
Parlava con voce coinvolta, sembrava avesse appena scoperto che c’è il male nel mondo. Mi son chiesta se non fosse approdata da poco in quell’ospedale.
РLei ̬ da poco che ̬ qui?
– Tre anni.
Diamine, tre anni. Quindi non ha attaccato discorso con una sconosciuta per sfogare un improvviso sbandamento emotivo. Qualcosa non mi tornava.
– In ogni caso… un senso… eh. – L’ho guardata. Dovevo risponderle davvero, dimenticando le frasi dei corsi psicologici? Era ancora in piedi dove si era fermata, non guardava verso il suo bugigattolo e non accennava ad andarsene. Quindi non aveva fretta. E poi, mi aveva fermato lei. Dunque – ho concluso, mentre il ping pong schiamazzava ancora – possiamo tentare un approfondimento.
– Cos’è un senso?

– …Bella domanda – rifletteva. – E’ una causa… una causa, e anche uno scopo. – Ho avuto la sensazione di aver già fatto questo discorso un milione di volte, dalla prima ora scolastica di filosofia su Aristotele all’ultimo gruppo cattolico in cui battibeccavo. La risposta, perciò, mi è uscita quasi annoiata.
– Forse le cose, semplicemente, accadono – le ho detto. – Siamo noi che ragioniamo di cause e scopi. – Per un attimo avrei voluto aggiungere “e poi, se anche trovassimo qual è lo scopo, potremmo chiederci quale sia lo scopo dello scopo, la causa della causa, il perché di Dio”, ma mi è sembrato così trito e banale che ho lasciato perdere. E poi avevo il sentore che non avrebbe potuto funzionare.
– Io… – ha ripreso – ho una visione cristiana dal mondo.
Infatti, non avrebbe potuto funzionare.
– Per questo penso che ci sia un senso, c’è un disegno per tutto, e noi non lo capiamo perché è Dio troppo grande per la nostra mente, quelli che per noi sono problemi… nell’ottica di Dio non sono niente, capisci?
Capivo così bene che nel giro di un secondo mi era venuta in mente una decina di argomenti incontrovertibili per risponderle, ma poi ho capito ancora meglio e ho pensato che, se volevo tornare a casa entro un’ora decente, era il caso di annuire.
– Sì, capisco.
Ho detto “sì, capisco” svariate volte, finché sono riuscita ad augurarle buon lavoro e ad avviarmi a prender le mie cose in sala informatica.

Mi sembrava bello, comunque, che una dottoressa credesse. Trasmetteva sicuramente più fiducia di me.

Senso – 1

– Vai al terzo?
– Sì.
Salivo insieme a una donna intabarrata nel camice verde, con in testa la cuffia da medico della terapia intensiva. Uscite dall’ascensore, ci stavamo dirigendo lei verso il bugigattolo dei medici di guardia, io verso la sala informatica.
РTu vieni spesso qui? Рsi ̬ fermata. Strano che un medico si fermi e ponga una domanda sorridendo.
– Alcuni giorni la settimana; – ho spiegato – faccio servizio civile qui. Ormai è un anno, anzi… questa è proprio l’ultima sera.
Poco più indietro, qualcuno schiamazzava giocando a ping pong. Ho ricordato la prima volta che sono uscita da quell’ascensore, vedendomi schizzare davanti una pallina, seguita da due carrozzine all’inseguimento.
– Aah, però. Strano, non ti ho visto in giro… allora hai finito. E poi che farai?
– Mah, continuerò a studiare. Faccio Lettere – le ho detto, sempre più perplessa dalla sua aria accogliente. Non ho mai visto un medico che non fosse di fretta. Si era sistemata di fronte a me, in piedi ma con l’aria di chi si accomoda per la conversazione.
Mi ha chiesto quando intendevo laurearmi, e se avevo idee per la tesi.
– Non mi faccia domande difficili! – ho scherzato.
– Perché non sfrutti l’esperienza che hai fatto qui? – mi ha suggerito.
– Beh, non è molto attinente…
– Come no! Ci sono… ci sono tanti argomenti invece… – ha cominciato ad annuire, pensosa – che so… la sofferenza nella letteratura.

Ho cercato di non ridere.
– Avresti tanti spunti, non trovi?
– Mah, guardi. Forse proprio perché ne ho vista parecchia, credo che oltre le riflessioni… le filosofie… ecco, se posso parlare in parole povere, al di là di tutte le pippe mentali che ci possiamo fare sulla sofferenza – (mi sono chiesta se pippe mentali fosse un’espressione adeguata a una conversazione di circostanza con un medico sconosciuto, e mi sono risposta che l’ultimo giorno si poteva fare anche questo) – la conclusione è che comunque la mattina ci alziamo e dobbiamo vivere, via.
Godevo a riportare il discorso su un piano cinico e apparentemente superficiale. Doveva esser la soddisfazione per la scoperta di non aver più bisogno di dimostrarmi a ogni costo persona profondissima – credo succeda quando uno si convince finalmente di esserlo davvero.

Sulla dottoressa è passata una rapida ombra di delusione. Poi ha elaborato i suoi argomenti, calibrando un vigile tono accomodante.
– Certo, ma sai… un conto è per gli autonomi, io una volta a un paziente gli dissi guarda, tu hai le braccia, tu sei a posto, ti farai una vita più o meno normale. Ma gli altri? Io lavorando qui mi sono molto interrogata sul senso di tutto questo…
– Beh, per i tetraplegici si può sempre recuperare un’autonomia mentale, l’autonomia di gestire la propria vita e le persone che ti aiutano – ho risposto. Mi ero salvata recuperando dalla memoria un argomento che dovevo aver sentito a qualche corso psicologico.
– Sì… sicuramente – ha ripreso – ma… ma… allora quelli che non hanno più nemmeno quella possibilità?
– I cerebrolesi?

[…continua…]

Ti brillano gli occhi – 3

Claudio era autonomo, e viveva da solo ormai da anni. Non lavorava, ma era comunque impegnato per gran parte del suo tempo, dovendo tener dietro alle sue incombenze fisiche, alla casa, alla spesa da fare – nonché ai cinquanta chilometri che si faceva regolarmente per andare a giocare a basket. Si era comprato due carrozzine – una la teneva sempre in macchina, così perdeva meno tempo in carico e scarico – e uno Scalamax da cinquemila euro.

– Con quello, lo aggancio alla carrozzina e posso salire le scale, basta che un accompagnatore lo tenga per il manico – mi ha spiegato.
L’aveva visto usare in aeroporto ed era corso a vedere come funzionava, poi se l’era comprato.
– Così quando vado a casa di amici non ho mai problemi… a sollevarmi per tre piani di scale magari una volta lo fanno, due, ma sempre poi uno si scoccia… Invece questo lo tengo sempre in macchina così dovunque vada sono libero!

Ho pensato a tutti quelli che rinunciano per la vita ad andare da certi amici, a frequentare certi corsi, visitare certi posti. Ho pensato chi scrive una lettera di protesta se una riunione è inaccessibile, ma intanto non ci va.
Uno Scalamax. La libertà per cinquemila euro.

Guidando verso casa, quella notte, ho pensato agli occhi che brillano. Mi sono chiesta come mai molti mi abbiano detto cose del genere, ma quasi tutti erano gente di quell’ospedale. Mi sono chiesta se sia poi così vero che trasmetto tranquillità, o se non si veda forse soltanto per contrasto, là in mezzo a quella selva di occhi disperati o impauriti o spenti o comunque in stand-by, in attesa di accendersi in tempi migliori. Se gli altri – i miei amici normali – mi vedono più tormentata, o se magari lo sono veramente, fuori dall’ospedale, quando non mi pagano per dare coraggio.
Sarei allora soltanto una buona attrice – eufemismo per ipocrita – o, con più indulgenza, una abbastanza abile a lasciare i sentimenti nella propria scatoletta, quando è il caso?
Ma quando mai.
Ho passato due mesi senza conoscere quasi nessun paziente, per uno sbalzo sentimentale della mia vita fuori. La mamma di Angelo mi sgamava regolarmente ogni volta ch’ero stanca o solo pensierosa, dicendomi che oggi non ero dell’umore. Ho smesso di occuparmi con attenzione dei miei colleghi appena ho capito che erano persone assai lontane dai miei interessi. Mi sono lasciata andare a una sofferta discussione sulla bellezza, riversando sul tavolino del bar tutte le mie ingenue idealità frustrate. Ho frequentato gente che mi era simpatica e ne ho evitata altra che mi faceva paura.

No, decisamente la separazione del lavoro dai sentimenti non faceva per me. E quei sentimenti non erano sempre lucide felicità di ceramica, piuttosto il solito torbido dove conoscersi e rimescolarsi.

Chissà se anche il torbido brilla.

Ti brillano gli occhi – 2

– Ma… ma sai che io ti volevo conoscere – ha sorriso il ragazzo dagli occhiali sottili. Parlava un toscano molto amichevole e tranquillo, screziato solo all’inizio da una nota d’incertezza. – Già l’altro giorno, che ti avevo visto, lui – ha accennato all’amico lì accanto – mi aveva detto di presentarci, ma poi ho detto no vabbè, così dal niente…
– Allora presentiamoci!
Mi sono avvicinata e gli ho stretto la mano. Lui si chiamava Claudio.

– Ecco – ha continuato, come riprendendo il discorso lasciato a metà – volevo conoscerti perché ti brillano gli occhi.

– …Cosa?
– Sì, hai un’aria molto serena, sembri davvero tranquilla, hai questo sorriso, ti vedevo anche prima mentre cantavi…

So che a leggerlo potrebbe sembrare un maldestro tentativo di approccio, ma credetemi, il tono e il contesto non lasciavano dubbi.
Era qualcosa di molto più lusinghiero.

Claudio mi ha raccontato la sua vicenda con una parlantina fluida e divertita, e man mano che andava avanti capivo perché mi aveva subito colpito, e perché il suo commento sulla mia serenità mi era sembrato così diverso da tutti gli altri.
Lui non notava i miei occhi che brillano con l’invidia un po’ incredula di chi non ha più motivi per brillare, e si chiede sconsolato cos’ha lui di meno. Né ardeva della tragica speranza di una madre che, vedendomi, si domanda se il figlio disastrato potrà mai diventare così.
No. Claudio mi aveva riconosciuto: ero una coi suoi stessi occhi.

A quindici anni – faceva già l’agricoltore – iniziò a combattere contro una malattia del midollo spinale. All’inizio solo formicolii e debolezza, poi andò peggiorando a scatti, passando dalle stampelle al deambulatore e infine alla carrozzina.

– Ma io non capisco chi ce l’ha con la carrozzina. Per me non è mica un problema. Anzi, mi è stata un sacco utile…

Ero così felicemente stupita che sono andata a stringergli la mano una seconda volta, per puro entusiasmo.
– Era ora che qualcuno lo dicesse – ho risposto – Dovresti dirlo un po’ in giro, sai bene che da queste parti non è che ne siano convinti in molti eh…
– Ah, lo so. E’ che qui sono post acuti, è ancora troppo presto. Ci vuole tempo. La volta scorsa che fui ricoverato qui conobbi un tetra che mangiava sempre in camera sua, perché si vergognava a usare quel suo cucchiaio legato alla mano, a far vedere che magari gli cadeva qualcosa fuori dal piatto… Io andavo sempre da lui, finché l’ho convinto ad andare in mensa, e mangiavamo insieme in mensa, e gli dicevo beh che ci fa se ti cade qualcosa, tu vai tranquillo e non pensare a come fanno gli altri, tu vai per la tua strada… Beh sai com’è finita? Qualche giorno prima che andasse via, io lui e i suoi siamo andati a mangiare al ristorante, qui di fronte!

Ammetto che per un attimo l’ho invidiato. In dieci mesi di servizio civile non avevo combinato niente del genere, tutta presa dalle menate psicologiche sul rispetto dei tempi, della volontà e dei limiti altrui. Forse aveva ragione Matteo l’educatore, certa gente bisogna prenderla e sbatterla a fare quel che deve, anche controvoglia.
Le psicologhe dell’ospedale non erano mai state d’accordo.

[…continua…]

Ti brillano gli occhi – 1

Una sera stavo a prendere un po’ d’aria nello spiazzo antistante la porta dell’ospedale. C’erano tre ragazzi che conoscevo e altri due, un po’ a lato, che non riconobbi. Li squadrai rapidamente e mi sembrò di averli già visti, ma solo nei giorni appena precedenti; dovevano essere nuovi.
Osservai uno dei due un po’ più a lungo. Era un ragazzo sulla trentina, i capelli quasi a zero, occhiali sottili e faccia pulita. Mi ricordava qualcosa. Si accorse che lo guardavo e distolsi lo sguardo.

Mi sistemai accanto a uno dei ragazzi che conoscevo, scuotendolo per la ruota.
– Ecco la mia lauta cena – ho scherzato, scartando il plum-cake che avevo preso alle macchinette.
– Mangi sempre così poco?
– Anche meno!
– Ma non dovevi andare a scroccare alla festa di quello al secondo piano? – mi ha chiesto un altro.
– Sì, ma la Sara mi ha piantato in asso – ho risposto – ha incontrato uno in corridoio e s’è fermata da lui…
РVabb̬ potevi andarci da sola, che ti frega!
– Dai, nemmeno conoscevo il festeggiato…
– E che ti frega…

Ecco dove l’avevo visto, pensava una metà di testa mentre l’altra accompagnava la conversazione. Nel corridoio, stamattina, quando ho pensato ehi, questo dev’essere uno nuovo del reparto Rientri – era senz’altro dei Rientri perché stava troppo bene fisicamente, niente calze e pancera, e muoveva con agilità una carrozzina figa, non di quelle prestate dall’ospedale – e poi dev’essere anche un tipo sveglio.

– Sì beh – ho ripreso – potevo andare e dire ehi ciao non so chi cazzo sei ma comunque auguri, hai mica da mangiare?

Continuammo a immaginare scenari ridicoli per qualche minuto, finché a uno a uno i miei interlocutori rientrarono per andare a letto.

– Anch’io entro, che vado studiare – disse l’ultimo. Faceva le superiori, e l’indomani aveva l’esame di riparazione. Il suo liceo avrebbe inviato il compito via fax, dalla Sicilia, e lui lo avrebbe svolto lì, sotto la supervisione della Scuola in Ospedale.
– Ah giusto! In bocca al lupo allora – risposi, e mi mossi per rientrare anch’io. Erano rimasti solo i due sconosciuti.

Giusto, i due sconosciuti.

Mi fermai lì.
E non ci fu bisogno di aspettare molto.

[…continua…]

Do’ vai? – 3

Non ricordo esattamente come ci siamo chiariti. Devo aver cominciato con una frase come “a te non interessa veramente il computer” e non so bene come ho concluso. In mezzo, qualcosa sul fatto che c’erano anche gli altri, io lavoravo lì per tutti e quindi non poteva pretendere che. Anzi, con loro passavo già più tempo che con chiunque altro, perché in fondo mi trovavo bene in loro compagnia.
Ho fatto molta attenzione ai plurali.

– A me piace parlare con te – ha detto lui, serio. – Sì, al di là che… – e con la mano ha scacciato qualcosa di fronte al viso – ma proprio parlare, parlo bene con te.

Così Vlad ha cominciato a parlare. Parlava la sera, nel periodo in cui Cesare stava male e non teneva banco, quando nella loro stanza si rimaneva a luce spenta e Dario si perdeva dietro la luce azzurrognola del portatile che teneva a letto, sul suo tavolino. Parlava sottovoce un italiano molto più fluente di quanto i suoi timidi monosillabi lasciassero supporre. Parlava, quasi sempre, di donne.
– Prima era facile. Trovavi una, le chiedevi, ci stava.
– Ci stava sempre?
– No, non sempre. A volte sì, a volte no.

Alzava le spalle, come fosse lo stesso.

Ho avuto la sensazione che per lui fosse lo stesso in modo diverso che per gli altri due. Dario non si era mai innamorato e gli pareva inconcepibile una storia oltre i due mesi. Cesare considerava le donne prede da vincere, e i no – se mai ne avesse presi – non li avrebbe mai raccontati.
Il rumeno sembrava seguire docilmente un copione scontato, senza fare domande allo sceneggiatore.

– Tu provi, se te la dà, bene, se no, pazienza… Provi un’altra! – sorrideva.

Gli ho chiesto se avesse sempre funzionato così, per lui.
Ha scosso la testa e mi ha mormorato una torbida storia di un anno, una ragazza del suo paese che lo tradiva col proprio patrigno – ma forse lui la obbligava, ho detto, cosa se ne fa una ventenne di un vecchio scassato – e perché allora non me lo diceva, ha risposto, – magari non poteva, era minacciata – mi ha fatto troppo male – ma ti cerca ancora? – mi ama ancora, ha detto, ma mi ha fatto troppo male.

Una sera l’ho vista, dentro un riquadro male illuminato di fotogrammi scattosi. Cercavano di comunicare via webcam, ma funzionava male; Vlad mi chiedeva di sistemarla. Vedevo che in chat si scrivevano qualche frase in rumeno. Non so cosa significassero, ma erano brevi: forse soltanto

– mi senti?
Non sento

– Capisci?

Non

capisco.

(- Non capivo, non capivo niente
è la stessa cosa che mi ha detto raccontandomi di quando – troppo piccolo, da bambino nel lettone di una donna troppo grande
Non capivo, non capivo niente.)