Monthly Archives: Giugno 2006

‘U brutto male

nonni al loro cinquantesimo

La nonna è morta.

C’è una semplicità naturale in queste poche parole. Poi ci ingegniamo ad appannare la realtà dietro rassicuranti perifrasi – “è mancata”, “ci ha lasciati”, e di lì peggiorando – perché incartare le cose nel linguaggio aiuta a separarle da se stessi. Invece, semplicemente, è morta. Lei avrebbe detto di un bbrutto male, come si usa giù quando non si ha il coraggio di dire cancro. Anche questo dovrebbe essere un modo per aggirare l’asprezza della malattia, una specie di rito scaramantico per scacciarla; come se dicendone il nome si rischiasse di chiamarla e farla arrivare più in fretta.
A me però hanno sempre inquietato di più le allusioni lanciate con aria misteriosa, in un fuggevole sgranar d’occhi, alzando la testa e soffiando in un sospiro: ‘u bbrutto male. L’innominato, tu-sai-chi.

Ma noi non sappiamo chi, né come. Abbiamo solo dato un nome alle cellule, e a quel che accade quando impazziscono – buffa, quest’immagine. Le cellule, annoiate, stanche dopo settant’anni di routine, un giorno sentono fischiare il treno e diventano pazze. Allora qualcuno le porta in clinica, e il narratore dice no, voi credete siano impazzite, ma questa è solo la conseguenza naturale di ciò che han sempre fatto. Già, sono vissute: si muore perché si nasce.

Eppure, non basta. Continuiamo a non saper bene come. Com’è possibile che prima uno parli, pensi, si muova, e poi di colpo puff, fine. Si sorride delle spiegazioni scientifiche, ritrovandosi di fronte al contrasto disarmante fra la vita ricordata e la concretezza attuale della morte; non coincidono, si respingono, non si credono l’un l’altra – tu esisti, adesso, morte? e allora prima come potevo esistere, io, vita? 
La morte mi ha girato intorno a larghe spirali, partendo da lontano, da chi quasi non conoscevo – e ancora è rimasta a sicura distanza, ché non incontravo la nonna da un paio d’anni, giusto a volte l’ascoltavo lamentarsi per telefono. Tu guarda, l’ultima volta l’ho vista nel filmino per la Gras, a parlar della guerra.

Prima, la vedevo d’estate – sempre più vecchia, più incazzata, più avvolta in scialli e fazzoletti per nascondere la testa pelata. Zoppicava lì in campagna con un ramo per bastone, perciò la Cri la chiamava mosè – beh, il piglio l’aveva. Gridava ‘o Turiddu! per la valle finché il nonno ca paci ca paci non tornava, col suo cesto di frutta o la motofalce in mano e un sorrisetto complice sotto i baffi, come a dire t’ho sentito bene ma ho fatto tardi apposta.
Chissà che farà, adesso ch’è solo, nonno Turiddu. Avrà gli occhietti azzurri sempre più stretti sotto la pelle, nascosti a guardare ricordi persi chissà dove, che più non sa nemmeno lui. Nessuno gli romperà le scatole urlandogli di tornar dalla campagna, né leggerà quei biglietti con la lista della spesa; non bestemmierà giocando a carte, ché gli restano soltanto i solitari, e non dovrà costringersi a star vivo per far compere o sistemare burocrazie e certificati che non capisce.
Forse, di star vivo si dimenticherà. Passerà le sue giornate all’orto, o fra i limoni, parlando con gli alberi che s’è sempre ostinato a piantare, ignaro del tempo. La nonna glielo ricordava sempre, di non piantare, ché tanto non sarebbe vissuto abbastanza per vederli cresciuti – e lui, divertito a sfidar la morte, alzava sornione il muso e le spalle, ecche ddebbo fari, Maria.

Lei era più vittimista, come molti vecchi che provano una specie di tetra soddisfazione nell’elencare per la millesima volta i loro acciacchi, mendicando compassione. Aveva mezzo diseredato mia sorella, colpevole soltanto d’esser scappata prima di me perché più grande; io forse ho scampato l’anatema comprandola con qualche cartolina e una telefonata ogni tanto. Sì, è un po’ squallido, me ne rendo conto; ma mi sembrava peggio fingere d’interessarmi con smaccata ipocrisia. Non ho rapporti umani nella mia famiglia stretta, figuriamoci un migliaio di chilometri più in là. Niente di personale, solo… solo, ecco, non c’era proprio nulla di personale. Nel senso che non ci siamo mai conosciute granché, ciascuna incastrata nel ruolo da giocare, io nipote indifferente tu nonna insoddisfatta, impossibile cambiare.

Così, mi resta una manciata di ricordi estivi, qualche risata alle battute trash dei cugini dopo cena – come ridevi, con la panciona sballottata qua e là – i piedi sulle tue ginocchia, le ingiurie al cane, lo scricchiolio a ogni passo e ahiahimammitta – chissà cos’hai detto morendo, sarebbe stato buffo dire ancora quel tuo intercalare lamentoso.
Papà voleva che tornassi quest’estate, immagino per te. Non credo l’avrei fatto. Perché sono egoista, probabilmente; o per non vederti così, o per scappare, o perché schifo l’ipocrita cortesia e le cose che si fanno per asciutta convenzione, senza sentirle, senza crederci. Ma il problema non si pone, ché non avrei fatto in tempo.
Ciao, nonna maria rosa…

43/45

Prima prova: ovvero quella di cui il giorno prima ridi, pensando tsk, se devo preoccuparmi per scrivere un tema siamo proprio caduti in basso. Poi certo, aspettando mezz’ore eterne in attesa delle fotocopie un po’ di tensCion ti sale addosso, se non altro perché sei lì, seduta a quel famigerato esame di cui si parla e sparla per cinque anni – e che prima o poi arriva davvero.
Panico all’apertura della busta: Ungaretti ha fregato tutti e la prof s’è disperata – gli abbiamo dedicato due orette scarse di lezione, convinti che tanto esce prosa. Qualche tempo fa borbottai tra i denti un chissenefrega, a me giuseppino piace e fanculo all’esame – tutta ‘sta mania di studiare per l’esame, come contasse qualcosa! – facciamoci per bene letteratura e amen; ma si sa, a scuola il tempo è quel che è. Perciò, in una fase di tregua dell’anno scolastico, Ungaretti me lo sono letto per i fatti i miei, perché mi andava. E chissà, forse (forse) sarei riuscita a fare pure il tema letterario.

MA ho fatto il saggio breve. E chi mi conosce sa benissimo quale ho scelto, lo sa senza bisogno di chiedermelo. Sentivo lamentarsi dei temi assegnati, bruttarelli in verità; eppure, leggendo il titolo del tema sul distacco, m’è venuto un po’ da sorridere, ché pareva scelto per me. Sono quasi tre anni che impesto la rete con post del genere.
Così, ho sudato sei ore scrivendo due malacopie zeppe di cancellature, incertezze e ripensamenti, in precario equilibrio sul limite dello sbrodolamento patetico-introspettiv-nostalgico, tipico dell’adolescente in fase Grande Passaggio della Vita; il tutto espresso col solito linguaggio da momento catartico, come nelle migliori tradizioni blogghico-sentimentali.
Al termine delle sei ore ero in stato confusionale, avevo prodotto poco più di tre rachitiche colonne, pensavo di aver scritto la mia solita pappina pallosa e vuota incartata in una buona forma, e vedevo un Quindici con le alucce volare via dalla finestra facendomi una pernacchia.

Il Quindici con le alucce è tornato in un mezzogiorno bollente, fuori da scuola, appollaiato fra mani della prof.

Seconda prova: quella che ahahahahaha. Nel senso che si ride per non piangere.
Su tutti i newsgroup viene definita la prova più facile degli ultimi anni, decenni, secoli. Pare che già la nonna di Socrate si sia diplomata allo scientifico di Atene superando un esame più difficile.
Ma la nonna di Socrate non andava in quinta C. Classe notoriamente incapace nelle materie scientifiche e soprattutto in matematica, dove si contano quattro o cinque sufficienze. Il problema di massimo e minimo era, in effetti, molto facile. Tra i primi problemi di massimo e minimo che si fanno. Solo che noi non li abbiamo fatti (ok, ci si poteva arrivare lo stesso sapendo le derivate).
E qui si aprirebbe la polemicona anti-Brighi, riguardo alla quale le mie posizioni sono così riassumibili:
– Il mischino s’è ritrovato una classe umanista e demotivata. Al che s’è demotivato anche lui.
– E’ vero che non abbiamo fatto diversi pezzi di programma. Ma non è che si sia girato i pollici a lezione: semplicemente le ha passate a ripeterci gli stessi concetti che non capivamo mai.*
– E’ vero che problemi in cui indagare, intuire, tentare, arrangiarsi creativamente, come in genere accade in quelli d’esame, non ne abbiamo fatti. Però, se solo avesse osato metterceli in un compito in classe, lo avremmo accoltellato a colpi di biro Bic.
– C’è chi in terza comincia a fare esercizi tipo esame, adeguatamente adattati. Noi abbiamo cominciato ad aprile. Questo potrebbe essere un problema.

[ *voto per un aumento delle ore di matematica allo scientifico. Ce ne fossero state sei o sette,
a) cinque anni fa mi sarei spaventata guardando l’orario, avrei scelto il classico e non avrei sbagliato scuola;
b) qualcosa entrerebbe anche nelle zucche vuote, se non altro a forza di sentirselo ripetere.]

Comunque: dopo essermi persa in svariati bicchieri d’acqua e dopo aver strappato al prof qualche dritta sibillina, sono riuscita a concludere qualcosa di sensato. Uscita da scuola ho realizzato che la diagonale di un cubo non è latoperradicedue e ho sbattuto la testa contro il muro una dozzina di volte.

Terza prova: Ahem.
Un po’ comincio a comprendere la desolazione degli insegnanti incazzati che popolano it.istruzione.scuola e auspicano maniche strette e rigide sorveglianze; ma alla fine è il piatto in cui mangio e non mi va di sputarci dentro. D’altra parte l’esame è già pieno di contraddizioni – perché un compito dovrebbe valere più di cinque anni? Perché i miei stessi professori dovrebbero valutarmi diversamente da come hanno sempre fatto? – e al suo valore non crede più nessuno.

Adesso, orali.

Rilancio, a tutti

Segnalibro con in bocca al lupo regalatoci dalla Seggy

 

Strategie pre-esame

1) Take it easy.
2) Non puntare al cento.
3) Non puntare a un voto alto.
4) Non puntare proprio.
5) Ripetere mille volte "il voto non giudica il tuo vero valore". Anche perché è vero.
6) Ripetere mille (alla seconda) volte "le priorità nella vita sono altre". E anche questo è vero.
7) Uscire tutte le sere per rinforzare la certezza di cui al punto 6.
8) Convincersi che se fossi andata al classico avrei preso cento, dopo aver tradotto la versione in un’ora, fischiettando.
9) Ricordarsi che, ponendo: "aspettative"=a, e "importanza voto d’esame"=x, con x appartenente a D=[-liceo scientifico ; +futuro letterario], si ottiene che il limite di x per a tendente a zero è uguale a zero.
10) Arrivati al punto dieci, raschiare dal fondo una qualche motivazione per non chiudere i libri e mandare tutto al diavolo.

Diego

– Ho trovato il mio nuovo spasimante – ha scherzato una tipa, indicandomi qualcuno. Non capivo a chi si riferisse. Poi ho visto un ragazzo camminare strano, un po’ ingobbito.
– Chi, quello con la maglia azzurra?
– Lascia perdere, – ride. Ah, era una presa in giro, non avevo colto. Meglio, se lo scopo era riderne hai sbagliato indirizzo.

– Ciao, io s-s-s-ono D-iego – deve aver detto, venendomi incontro; o qualcosa del genere per presentarsi, non ricordo. Occhi azzurrissimi, baffetti, lineamenti da versione carina di un hobbit.
– Ilaria, piacere!
Porgo la mano, mi arriva la sinistra da stringere di sbieco. La destra è un po’ rattrappita sul corpo, sembra più corta. Parla strascicando le parole; mi domando se abbia solo qualche muscolo sballato o anche qualche rotella fuori posto. Ecco, io chiarisco presto le cose con un bello slego filosofico, cosicché si coglie che sono folle ma non in senso clinico; invece, quando c’è difetto di comunicazione, non è mai facile distinguere.
– Quan-n-n-ti a-a-a-nni h-hai?
– Diciotto – sorrido.
– Aah, allora s-s-s-ono vecchio, io n-ne ho v-v-v-e-e-ntitre
– Eeeeh sì… accidenti… proprio vecchio eh! Ti vedo già qualche capello bianco…
S’è proseguito un po’, ondeggiando in equilibrio precario sulle banalità di circostanza. E’ finito a sedersi accanto a me, abbondando in pacche sulle spalle e contatti fisici, in misura superiore alla norma. Mai avuto niente contro questo genere di cose, in fondo lo faccio anch’io.

– Io r-r-esto seduto q-q-ui con te, perché so come si sta
– …?
– Sì, anch’io sono s-s-s-tato in c-carrozzella… è brutto
Lui? Uno così mi dice ‘ste cose? Va’, una vecchietta ci può stare, una suora rincoglionita pure, ma non uno che sta più o meno sulla mia stessa barca. Panico. (E ora cosa dico? Cosa diavolo dico per smontarlo senza offenderlo? Beh, proviamo con la verità).
– Eh……… mah.. veramente, io non… cioè, in realtà…
– …In realtà s-s-s-tai bene così?
– Ehm, sì. Sarà che ci sono abituata, per me è sempre stato… è normale così, ecco… non ci faccio caso…
Al che mi allunga il quarto mezzo abbraccio del giorno, poi dice ridendo al rallentatore "sei una ragazza splendida" e frasi analoghe.

S’è schiantato a tredici anni, in bicicletta. Poi riabilitazione, logopedia e cose del genere. Adesso lavora a sparecchiar tavoli e pelar patate in non so bene che posto; ma lui vorrebbe fare il cuoco.
– Come m-m-mio p-padre… lui è m-m-meridionale e non fa il c-cuoco, fa il cuuuuuuuoco – sorride, stringendo tutte le u e le o, alla napoletana.
E’ partita una canzone; Ligabue o qualcos’altro che non so; e ha preso a canticchiare. Era strano, cantando d’improvviso non strascicava più le parole, fluivano naturalmente una dietro l’altra, seguendo la musica; forse perché era lenta, chissà.

– Ma tu lo fai il gioco? – gli ho chiesto; ché dopo si partiva per la caccia al tesoro per le vie del paese, soliti passatempi da azione cattolica.
– No…
– Perché?
– Mmm… no, m-m-meglio di no.
Ho fatto finta di credere che non gli andasse, per non fare l’assistenzialista anch’io. Ma avevo voglia di prenderlo di peso, appenderlo su una qualunque carriola con le ruote e trascinarlo via con gli altri.

[Penso che non lo rivedrò più: altro paese, altra parrocchia; è stato per caso. Mi andava di scriver di lui proprio per questo: perché, in qualche modo, potessi portarmelo via]

Ma io torno eh

Finita. E’ finita. Fino a ieri me ne rendevo conto solo a tratti, scacciavo il pensiero. Ho perfino tirato un buon sospirone di sollievo dopo l’ultima lezione di matematica, o dopo quella di scienze passata come sempre a dormicchiare.
Ma oggi, arrivando, si sono risvegliate le pietre del muretto, il cemento del nostro casermone, la porta, le pareti dell’aula, i banchi. Mormoravano qualcosa tutti insieme, sommessi, in trepida attesa; sono passata, e ciascuno, salutandomi, mi ha soffiato addosso il ricordo che teneva appuntato su di sé, regalo di commiato. Così mi hanno sommerso, catalogando ogni gesto come irripetibile, dipingendo di specialità le cose quotidiane, trasfigurate ad evento solo perché improvvisamente ultime

Gli abbracci, le torte, la Vale che guardava lontano, trattenendo qualcosa negli occhi; e quelli che alla fine hanno pianto davvero (…come me), chi singhiozzando, chi nascondendosi. La Seggy, il libro delle gag, l’Eli che entra a portarle i piscialetto, l’interrogazione che “ci ho ripensato, era proprio bastarda”, ride, le chiacchiere trascinate di chi non riesce a staccarsi e resta lì, ondeggiando alla porta, “come farò senza di voi”. L’abbraccio della Mag, “ci scriviamo”, lei che parte, stavolta Costa Rica davvero – “ma tu vieni a trovarmi, perché tu puoi viaggiare”; e quello all’Ele, “posso abbracciare la miglior compagna di banco che abbia mai avuto?”.

– Ma io torno, eh! – ho gridato, andando via.
Spero.

[Perché ho imparato che il tempo non mi passa accanto: mi trascorre dentro, erodendo ogni volta qualcosa. E io ho paura di vedere i ciottoli di questi anni rimbalzare via senza rumore, confusi un giorno fra la polvere di mille altri. Forse c’è anche una specie di salvezza nell’oblio; adesso, però, non mi va di crederlo]

Autobus

 

biglietto del bus

 

…E grazie a quel pazzo di Giamma, ho preso l’autobus.
(Sì, il biglietto è timbrato due volte. Ehm ^^)

[Il 90 è accessibile. Perché Giamma lo sa e io no? E perché questo mezzo sconosciuto ha avuto le palle e l’intraprendenza di tentar quello che ai miei amici non è mai venuto in mente? E quante altre cose dicono che io non possa fare? No, scusate, questa è un’altra storia]

Ci vediamo all’esame

L’ha detto freddamente, in un ‘aula con le tende chiuse, dopo un’ora buia a sorbirci documentari di vent’anni fa – intervallati dai soliti strippi assortiti, sbalzi d’umore, infantile permalosità e frecciatine. (Sisti dice che è la menopausa. Ommammitta, non voglio invecchiare).
Il metodo fantasioso e un po’ cazzone, passi. Gli appunti dettati (no, non ho detto esposti ordinatamente o spiegati con lenta chiarezza: dettati), i filmati eterni, passino. Le lezioni incoerenti e saltellanti da un argomento all’altro, l’assenza di un vero programma, i voli pindarici pseudo-psico-mito-filosofici, và, hanno pure un che di creativo.
Ma questo metterla sul personale per una chiacchiera di troppo, e poi far l’offesa, credersi derisa, è il modo migliore per farsi deridere sul serio.
Squallido, ecco. Squallido e un po’ triste finire così, ché ci conosciamo da cinque anni, sentiamo ancora ridere le sue buffe assurdità dalle pagine dei nostri libri delle gag, ma non conta, non s’è costruito niente, pare. Così sia.
Sbuff.

[Forse, in effetti, il gelato dell’ultima lezione sarebbe parso ipocrita]

Impertinenze – 2

All’intervista segue un articolo sullo scarso rilievo che viene dato alla scienza in una società che, però, vive grazie alla tecnologia. I media, scrive, scodinzolano regolarmente dietro a scrittori, musicisti, storici, filosofi, teologi e altri intrattenitori, di varia (e spesso bassissima) levatura; a scuola riceviamo un indottrinamento religioso, letterario e filosofico, dato che, come non bastassero le favole della Bibbia, s’ostinano a raccontarci anche storielle come l’Iliade e quello sproloquio dantesco popolato di diavoli, angeli e anime morte che pagano i debiti o incassano i crediti maturati in vita. Sempre detto, io, che l’Alighieri si faceva troppi viaggi. Tutto ciò, secondo lui, concorre a promuovere la (non)cultura dell’irrazionalità, di fronte al cui potere lo scienziato rimane senza voce, e il popolo succube della superstizione.

Il problema del povero Piergiorgetto è che, anche quando riesce a partorire osservazioni ragionevoli, le annega inevitabilmente sotto secchiate di superficialità. Perché può darsi benissimo che la cultura scientifica sia poco diffusa, e tuttavia non vedo che c’azzecchi con questo Dante a scuola o il Papa in tv la domenica.
Partendo dal presupposto che "l’irrazionale" (forzando il termine a comprendere Dio, Harry Potter, Omero e i guaritori) si contrapponga sempre alla scienza e non possa conviverci, ne risulta per forza uno scontro: ciascuna delle due parti rivendicherà la propria superiorità e il diritto di essere visibile e divulgata – senza che però nessuna possa essere inconfutabilmente definita come l’unica vera forma di conoscenza, in modo da convincere tutti: i razionali dimostreranno le proprie tesi secondo ragione, quindi non potendo persuadere gli irrazionali; viceversa, questi ultimi sosterranno argomenti assurdi per gli scienziati. Come parlando lingue diverse: o si suppone che l’egiziano della porta accanto stia costruendo frasi sensate, nonostante ci appaiano incomprensibili, o lo si dà per pazzo delirante. Si tratta di riconoscere dignità all’interlocutore.

Senza questo presupposto, è inutile discutere di come suddividersi gli spazi di visibilità nei media: si vorrà soltanto eliminare la controparte. Sul retro del libro è scritto: se la matematica e la scienza prendessero il posto della religione e della superstizione nelle scuole e nei media, il mondo diventerebbe un luogo più sensato, e la vita più degna di essere vissuta. Che ciascuno porti dunque il suo contributo affinché questo succeda, per la maggior gloria dello Spirito Umano. Così, quel che dà senso alla vita è stato liquidato in un par di righe, e lo Spirito Umano sintetizzato nello spirito odifreddico. Quanto al mio spirito (qualunque cosa sia), credo voglia cercare altrove la sua maggior gloria.

(Volendo, continuerebbe. Volendo io, non illudetevi)

Impertinenze – 1

La Seggy, qualche tempo fa, nominò in classe tale Piergiorgio Odifreddi, di cui già sapevo qualcosa grazie alle poco benevole recensioni di questo mio caro vecchio virtuale. Così mi son detta: mica potrò banalmente fidarmi di quel bischero, sarà meglio piuttosto leggermi qualcosa io. E mi son fatta prestare Il matematico impertinente.

Ora, già dando un’occhiata all’indice, qualche perplessità sorge. I capitoli riguardano: storia e politica, religione, lingua e letteratura, logica, matematica, scienze. Roba che nemmeno Pico de Paperis.
Per chi non lo sapesse, si dà il caso che l’Odifreddo faccia parte di una simpatica Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, che sembra preoccuparsi della religione ben più di chi ci crede. Agli argomenti religiosi il nostro ha dedicato un capitolo del suo libro (ma in realtà il tema sgomita fra le righe di ogni pagina); ed è di questo che intendo raccontarvi.

Come molti profeti dell’antichità, Gesù di Nazareth è un personaggio mit(olog)ico sul quale non esistono testimonianze storiche.
Così si apre l’intervista a Gesù, nella quale Odifreddi rimescola le classiche critiche alla Chiesa: incoerenza coi vangeli, ossessione della morte, idolatria verso le immagini, violenza nelle crociate di ogni epoca, distorsione della morale in senso anticorporeo, sconsiderata moltiplicazione dei santi. Accuse, in parte, ben condivisibili – anche se il modo arrogante in cui son poste fa venir voglia di difendere zio Ratzy, per principio, pure quando scomunica Harry Potter. L’autore, in ogni caso, non si nega capatine in ambiti più strettamente teologici, illuminandoci con la sua opinione (pardon, quella di Cristo) riguardo alla divinità di Gesù, alla preghiera e alla volontà di Dio. Naturalmente, “l’intervistato” si presta volentieri a fargli da spalla, perfino di fronte a domandine semplici quali “lei è o non è il Figlio di Dio?”.
Odifreddi – sarà ch’è abituato a intervistarsi e rispondersi da solo – non ha bisogno d’esser confutato, ché ci offre lui stesso la replica migliore, messa in bocca a Gesù:
E come si fa a sapere qual è la volontà di Dio?
Bisogna ascoltare la sua voce, tacitando la propria.
E si tacitasse un po’, si tacitasse.

(Continua. Forse)