Monthly Archives: Giugno 2009

Alternative

1 - arrendersi, 2 - diventare lesbica

Ora spetta a loro – 4

Cesare, indubbiamente, aveva vissuto tutto quel che poteva; prima e anche dopo – perché, come diceva lui, era molto più facile fare il paracadutista nei NOCS che arrabattarsi ora tra le sue quotidiane sfide di sopravvivenza.
– Ci hanno dato solo una vita – cantava spesso – soddisfatti o no, non rimborsano mai…

Più tardi, in ascensore, ha appoggiato la fronte sul mio manico.
– Ehi, non mi morire qui però – ho scherzato.
– No… no… non voglio morire – ha risposto.
– …Ma come… prima dicevi di sì – l’ho sfidato, sorridendo.
– E’ che… è che forse devo – ha mormorato, dopo un silenzio. – Ma vorrei vivere…

Mi ha fatto compassione, nel senso etimologico del termine, questo suo oscillare incerto tra umanissime paure. Non so poi se lo pensava davvero, o se l’aveva detto solo perché in ascensore c’erano anche Vlad e Dario, e di fronte a loro non voleva arrendersi.

La sera seguente però ne ha riparlato, mentre eravamo tutti in camera. Stava seduto sul suo letto, a petto nudo come al solito, coperto sotto dal lenzuolo. Avvertiva del fatto che non gli piacciono i fiori, mai piaciuti, lui al funerale vorrebbe tutti con bandierine tricolore. Vlad e Dario non rispondevano.
– Io te la porterei la bandiera – gli ho risposto io, inghiottendo qualcosa.
– Ma smettila, no parlare di queste cose – è intervenuto Vlad, infastidito. – Noi ti veniamo trovare, eh, Marisa ci porta con macchinone tutti ad altro ospedale, vero? – ha chiesto, rivolto a me.
– Non l’ho mai pensato in sei anni – ha ripreso Cesare, con voce stanca – ma stavolta spero davvero che sia un biglietto di sola andata.
C’è stato un silenzio.
– Ehi.. poi come fanno loro senza di te – gli ho detto tentando un sorriso, mentre accennavo ai suoi… figli adottivi.

– Io gli ho dato la mia favola – ha risposto, tranquillo. – Ora spetta a loro portarla avanti.

Vittorio Sereni, da Un posto di Vacanza (sez. V)

Pensavo, niente di peggio di una cosa
scritta che abbia lo scrivente per eroe, dico lo scrivente come tale,
e i fatti suoi le cose sue di scrivente come azione.
Non c’è indizio più chiaro di prossima vergogna:
uno osservante sé mentre si scrive
e poi scrivente di questo suo osservarsi.

Ora spetta a loro – 3

Anche quando ho sfogliato l’ultimo foglio di verità – e ancora mi chiedo se non ce ne sia un altro più sotto – non mi sono sentita abbastanza ingannata da smettere di essere solidale con Cesare. Per quanto sia stato reticente sui dettagli, magari vittimista per sembrare più innocente, non ha in effetti mai mentito sulla sostanza del suo agire: la volontà di far del bene a quei compagni di stanza e di sventura. E se c’è una cosa sicuramente falsa, è che questo sia stato per loro un cattivo esempio.

Per alcuni giorni, Cesare è stato male. Una sera dormiva, con la luce già spenta, quando l’abbiamo visto alzarsi di scatto, in silenzio, aggrappato al letto. Io ero vicino al letto di Vlad, parlavamo sottovoce. Cesare si è piegato su se stesso in modo strano, senza far parola; è rimasto lì sospeso per un tempo eterno sotto i nostri sguardi, poi è crollato di nuovo sul cuscino.

Qualche giorno dopo è riuscito ad alzarsi, e abbiamo ripreso a gironzolare per l’ospedale. Una volta, nell’ora del crepuscolo e delle zanzare, ci siamo piazzati davanti all’entrata del parco, ormai sbarrata. Lui sembrava relativamente in forma, scherzava come ai primi tempi, giocava col povero Vlad e la sua rumenità, raccontava le sue storie. Ha catturato la nostra attenzione raccontando di quando coi NOCS cercarono di liberare un sequestrato, e finì ammazzato quel noto Samuele ch’era suo compagno e lui chiama per nome.
Poi gli altri si sono allontanati, tornando dentro l’ospedale a verificare una scommessa – è o non è quella la finestra della nostra stanza? – così sono rimasta sola con Cesare. Lui deve aver detto qualcosa di inutile cercando di ingannare il silenzio, ma non ci riuscivamo. C’era una sola domanda che volevo veramente fargli, da qualche tempo.

– E’ vero che nell’intervento di venerdì hai l’ottanta per cento di probabilità di morire?
– Sì – ha annuito. – E spero che sia vero. Non è che non ho lottato, so’ sei anni che lotto… ma con ‘sti dolori non si può – sospira. – Non avessi dolori mi godrei benissimo la vita anche così eh… è ‘na cosa così bella la vita… dicono ch’è un dono, mo’ io non lo so se è vero.. ma è bella – ha detto, fermo, con la convinzione di chi l’ha vissuta davvero. – Però così non posso continuare, nun posso sta’ male pe’ sempre…

Non ho avuto il coraggio di contraddirlo, né di guardarlo. Allungavo lo sguardo piuttosto sulla striscia di cielo tra l’ospedale e gli alberi del parco, seguendo la virgola nera di un paio d’ali che planava piano contro la brezza azzurra; e pensavo che sarebbe stato bello comunque.
Bello. Di quella bellezza semplice ch’è propria delle cose naturali, dei prati incolti, della neve fresca, delle donne senza trucco e della gente che muore dopo aver vissuto.

[…continua…]

Ora spetta a loro – 2

– Eh, è stato anche troppo chiaro… – ha detto il padre del ragazzino, ondeggiando nel corridoio con vago imbarazzo.
Giacomo, un pallido nerd di sedici anni, era stato catapultato da pochi giorni in camera di Cesare, nel quarto letto. I suoi genitori erano una ligia coppietta di mezz’età e mielosa morale; la madre, in particolare, stava abbarbicata al figlio tutto il giorno, decisa a proteggerlo con unghie e denti dalla cattiveria del mondo. Una sera ho parlato con loro, in un momento in cui eravamo usciti dalla stanza per consentire ai ragazzi di spogliarsi.
Cesare aveva appena finito di spiegare, con aria pacifica e professionale, quant’era normale e per nulla vergognoso, andando con una donna, dirle che si va un momento in bagno e somministrarsi un apposito medicinale che garantisce l’erezione ai paraplegici. Io commentavo col padre di Giacomo quanto fosse salutare per suo figlio avere qualcuno che desse informazioni e speranza.
Lui non era molto convinto.

[…]

Tra le parentesi quadre c’è una storia che non va raccontata, ma è la più semplice e antica del mondo. L’ho saputa a strati, sfogliando progressivamente i livelli di mezze verità che Cesare mi concedeva ogni volta.

Un giorno l’ho trovato a letto, come spesso capita quando sta male. Ma quella volta non era steso soltanto dai dolori all’intestino; era nero e taciturno. Ho dovuto insistere per farmi spiegare.
– E’ venuto il primario – ha raccontato, serio. Il primario è generalmente introvabile, e se va addirittura a cercare qualcuno in camera significa che il caso è grave. – Ha voluto che parlassimo a quattr’occhi. Ha detto che sono un cattivo esempio.

Cesare sembrava pugnalato dentro. Mentre parlava, trasformava progressivamente la rabbia in rassegnazione cupa, come chi è deluso amaramente da improvviso tradimento.
Mi sono sentita immediatamente solidale. Avrei voluto prendere chi lo accusava di essere un cattivo esempio e portarlo a stare lì, con me in quella stanza, tutte le sere, a vedere quell’uomo che fatica anche a sedersi ma si trascina lo stesso a prendere un caffè per far contento Vlad o rassicura Dario che ha ancora paura di cadere passando dal letto alla carrozzina dicendogli che è stato bravo a fare il passaggio, o gli spiega come si prendono le cose in alto nell’armadio quando lui lamenta ch’è impossibile, o gli ricorda di mettersi il catetere nello zaino se esce o lo avverte che sarà difficile dimenticare il motocross ma ci riuscirà o si sforza di non far vedere quando si contorce dal male perché loro non devono credere che è così per tutti lui è stato particolarmente sfortunato ma loro devono sapere che si vive si vive si vive la propria favola fino in fondo.

[…continua…]

Ora spetta a loro – 1

Cesare ha una mezza fidanzata, che lo viene a trovare ogni tanto. L’altra metà è occupata da diversi quinti, sesti e decimi di fidanzate, raccolte più o meno occasionalmente. Se ne vanta con finta discrezione, lanciando occhiate agli amici, abbozzando mezze frasi, alludendo di striscio a quella che si pomiciava nell’ascensore del reparto, o a quando gli è caduto l’accendino nel decolleté di un’altra e lui, poverino, non poteva che andare a cercarlo.
– Il Natale del 2001 è stato il migliore – raccontava. – Il 24 me ne so’ annato coi parenti in toscana e lì c’avevo… n’amica e siamo stati insieme, poi il giorno di Natale so’ tornato a Roma a cenare con la famiglia e c’era la sorella di mi’ cognato che faceva un po’ la… ‘nsomma me provocava e allora lì, che dovevo fa’ – rideva – so’ annato pure co’ lei. Poi il 26 m’ha chiamato ‘na vecchia amica de Pescara e allora pronti, ho preso la moto e me so’ fatto altri ducento chilometri pe’ anna’ da lei; il giorno dopo via de novo a Roma che m’aspettava la mezza fidanzata di allora… ‘nsomma quando m’ha visto mi’ fratello ha guardato i chilometri sulla moto e m’ha detto “ma te sei fatto tremila chilometri in quattro giorni, dove cazzo sei stato… anzi no non lo voglio sapere”.

Partito Gianluca, Dario si era fatto spostare nella stanza di Cesare e Vlad. Da quel momento mi sono praticamente stabilita in quella camera, passando le mie serate con la strana famiglia che si era creata: Cesare si era affezionato ai due ragazzi come a figli da crescere. Sapevo che non raccontava le sue avventure per pura ostentazione – uno come lui non aveva bisogno di bullarsi con due ventenni – ma anche e soprattutto per mostrargli la sua favola; per fargliela vedere possibile, concreta, da poter quasi toccare – come le donne che ancora lo venivano a trovare, e che Cesare avrebbe tranquillamente condiviso coi suoi compagni. Diceva spesso che sarebbe stato contento per loro, se fossero riusciti a farsene una – fatta eccezione per la mezza fidanzata, naturalmente.

Un giorno gli ho chiesto se tutte queste donne fossero consapevoli del loro ruolo di frazione di fidanzata.
– Dipende, quelle a cui lo voglio fa’ capi’ lo capiscono, se no no. Io so’ capace de racconta’ bugie de quelle che sono tanto convinto, ma tanto convinto che alla fine ce credo anch’io!

Non faticavo a crederlo. Cesare sarebbe stato capace di vendere condizionatori ai pinguini, rendendoli pure contenti; e presto l’avrei provato sulla mia pelle.

[…continua…]

Piccolo grande uomo – 4

Una sera ch’ero nella stanza di quei due, un’infermiera sui quarant’anni entrò in camera senza nessuna incombenza da svolgere. I ragazzi la salutarono con confidenza; lei ricambiò, chiuse la porta, prese una sedia e si sedette a fumare ai piedi del letto di Gianluca. Capii, un po’ stupita, che era una cosa abituale.
Lui stava per essere dimesso, e lei cominciò a lamentarsi di quanto le sarebbe mancato.
– Ma quando tornate, a settembre, vi faccio mettere di nuovo tutti e due nella stessa camera. Ah, non ci piove, a costo di farmi licenziare! – ha detto, sinceramente convinta.
Pensai che Gianluca e Dario dovevano essere molto legati – anche se da bravi uomini se lo dicevano insultandosi a vicenda. Dario teneva come sfondo dell’i-phone una foto di loro due.

– Mio figlio ha più o meno la tua età – continuava l’infermiera, guardando Gianluca. – Ma tu non hai davvero vent’anni. Sei un piccolo grande uomo – ha sorriso.

Ha ragione, pensai, osservando quell’omino tondeggiante dall’aria tenera, seduto sul letto. Stava sempre leggermente gobbo con le spalle, e sembrava che là sopra tenesse in equilibrio la responsabilità del mondo. Mi piaceva guardarlo negli occhi, trasmetteva qualcosa di pacifico e rassicurante, come dire: va tutto bene, ne abbiamo passate tante, passeremo anche questa.

L’ultimo giorno siamo andati al bar con gli altri, come al solito. Dario faceva i suoi commenti sulle belle stagiste del tavolo accanto, l’amico lo spalleggiava ammiccando, io li prendevo in giro per quant’erano assatanati o scuotevo la testa ostentando il mio disappunto femminista. Vlad si è acceso l’ennesima paglia, mentre Cesare gli ricordava amichevolmente che era proprio un rumeno da bruciare – ovviamente così, a pelle.
A un tratto Gianluca ha posato la mano sul tavolo, col palmo in alto. Non ricordo più cosa mi stesse chiedendo – forse due monete di resto, forse una penna o un accendino – ma, qualunque cosa fosse, non l’avevo. Così per scherzo gli ho messo in mano la mia mano, e lui l’ha presa, tenendola molto più del necessario. Poi m’ha guardato col suo sorrisetto di bronzo:
– Facciamo l’amore?

Piccolo grande uomo – 3

Nella stanza di Dario e Gianluca ho passato autentiche serate da gita scolastica, quando ci si ammassa nella camera d’albergo di qualcuno a far chiacchiere fino a tardi. In genere ci raggiungeva anche Vlad, e a volte Cesare – sempre capace di ravvivare l’atmosfera. Restavo con loro fino al limite dell’orario di visita, quando la guardia armata passava inesorabilmente a chiudere i cancelli per la notte. Nella maggior parte dei casi passavamo la serata a prenderci in giro, oppure si vedeva la tv o si ciondolava tra il letto e la macchinetta del caffé.

Gianluca era bravissimo a fingersi arrabbiato, con aria serissima, per poi riderti in faccia, e qualche volta ci sono caduta anch’io. Dario amava punzecchiarlo, accusandolo di essersi addormentato l’unica volta che lui aveva avuto bisogno di parlare seriamente con qualcuno.
Quando si esaurivano i cliché dell’amichevole violenza, spesso cadeva il silenzio, a ricordarmi di quanto, in fondo, fossimo solo estranei capitati nello stesso posto – con esperienze, cultura, interessi e argomenti di conversazione completamente diversi.
Almeno finché non abbiamo iniziato a raccontarci.

Dario era troppo diciannovenne e troppo timido per non ostentare un’allegra, triviale superficialità; Gianluca non era più fine, ma forse già aveva il coraggio di abbandonarsi, ogni tanto, a un po’ di paura; e ogni tanto ci si guardava negli occhi.

Un giorno mi invitò con lui sul balcone, mentre l’altro era a letto. Si accese la paglia, tergiversò, forse disse qualcosa sul tempo, e poi mi parlò del ritorno.
– …Paura? – gli ho chiesto.
– Timore – ha risposto, stringendo le labbra. – La mia ex… dice che non mi vuole vedere così. Che non ce la fa.
Mi ha spiegato che è venuta a trovarlo soltanto una volta, quando era ancora in rianimazione.
– Si sarà spaventata – ho risposto. – Ma vederti adesso non è la stessa cosa…
E poi col tempo diventa normale, è abitudine, gli ho detto – pur sapendo che, per alcuni, normale non diventa mai.
– Sì, certo… io ho già avuto del tempo per cominciare ad adattarmi all’idea. Ora dovranno adattarsi anche gli altri.
Pensai a questa ragazza travolta da un bambino, da una difficile convivenza con un giovane sempre al lavoro, dalla propria madre contraria alla relazione e alla fine dalla notizia che il padre di suo figlio s’è mezzo ammazzato. Che fare? Scappare.

E poi ritornare. Da qualche tempo ha iniziato a chiamarlo tutti i giorni, a chiedergli di tornare insieme.
– Ma cazzo, fa’ na prova – s’è intromesso Dario. – Che ne sai di com’è quando torni…e poi pensa a tu’ figlio
– Mio figlio starà meglio vedendomi un’ora al giorno che vivendo con due genitori che litigano – ha risposto, secco. – Io non provo più niente per lei, si è comportata troppo male…

Ho guardato questo Gianluca travolto da un bambino, da una difficile convivenza con una ragazza che non si svincolava dalla madre, reso disabile dal lavoro con cui manteneva quella stessa ragazza che poi l’ha abbandonato. Perdonare?

[…continua…]

Piccolo grande uomo – 2

Solo pochi giorni prima, a un incontro per volontari, una signora si era lamentata per gli “apprezzamenti” di certi sbruffoni giovincelli, che potevano essere suoi figli. La psicologa aveva pacificamente riportato questo comportamento al normale bisogno dei pazienti di riaffermare la propria virilità.
In effetti Dario diceva a tutte le infermiere “ti amo!”, passando per i corridoi.

– Marisa, lo vuoi vedere? Eh? Ora tolgo la tenda…
Gianluca faceva lo scemo ogni volta che doveva farsi un cateterismo. Il fatto che i paraplegici vadano in bagno senza andare materialmente in bagno dà adito a situazioni potenzialmente imbarazzanti. In genere i pazienti chiedono ai visitatori di uscire dalla camera, in questi momenti, ma come visitatrice abituale e smaliziata ero stata promossa a starmene semplicemente al di là della tenda verde che divide i due letti.
A differenza della signora, però, non mi sentivo molto scandalizzata. Sarà che questo tipo di proposte sono ovviamente troppo esplicite per essere vere, sarà che rientravano coerentemente nel clima goliardico che si era creato, sarà che il mio migliore amico parla come una specie di maniaco sessuale, per cui ci sono abituata.
O sarà che mi faceva piacere, perché, in fondo, nessun altro aveva mai scherzato con me in quanto donna.

– Vedi, a esserci nati ci sono senz’altro dei vantaggi – gli ho detto un giorno. – Tipo i molti meno problemi ad adattarsi, l’assenza di rimpianti, niente traumi da incidente. Però ci sono cose che non hai mai fatto e, come dire, è molto più difficile impararle.
Gianluca ha inclinato il faccione tondo a guardarmi.
– Ma sì, dai, onestamente… – ho abbassato la voce – …ok, forse nel mio ruolo di assistente consolatoria non dovrei dirtelo, ma via… non è molto comune che un normodotato se vede una disabile… và, pensa anche a te prima, credi che quand’eri in piedi avresti mai scherzato con leggerezza su queste…
– Ho capito cosa vuoi dire – ha annuito, salvandomi dal dettagliare troppo le mie paure.

[…continua…]

Piccolo grande uomo – 1

(Gianluca ha posato la mano sul tavolo, col palmo in alto. Non ricordo più cosa mi stesse chiedendo – forse due monete di resto, forse una penna o un accendino – ma, qualunque cosa fosse, non l’avevo. Così gli ho messo in mano la mia mano.)

Gianluca è un pugliese paffuto che parla stringendo tutte le o. Ha la mia età, ma se non si fa la barba ne dimostra anche dieci in più, tra lo stempio, le spalle larghe, lo sguardo forte che ne ha viste già abbastanza e il figlio.
Il figlio lo ha fatto un paio d’anni fa – quindi a venti, ventun anni – insieme a una ragazza con cui ha poi iniziato una convivenza turbolenta. Le spalle larghe gli servivano per fare i tre lavori al giorno necessari a mantenere la neofamiglia; quanto allo sguardo, ha già fatto in tempo a vedere un datore di lavoro che ignorava ogni regola di sicurezza, provocandogli la caduta che lo ha reso paraplegico, e la convivente che lo ha lasciato subito dopo.

L’avevo già incontrato varie volte, prima di conoscerlo davvero, ma senza la goliardica mediazione di Cesare non avrei mai iniziato a bazzicare la sua camera – con la porta regolarmente chiusa, di sera, perché potesse fumare indisturbato.
Invece, tra una presa per il culo e un’esortazione a bruciarmi (Bruciatela! Perché? Così, a pelle, a pelle…), Cesare mi aveva aperto una porta nella complicità tutta maschile che aveva costruito coi “suoi” ragazzi: Gianluca, col relativo compagno di stanza (un diciannovenne toscano, Dario) e poi il rumeno, Vlad. In breve, i tre hanno messo da parte ogni convenzionale rispetto verso le donne e mi hanno allegramente dimostrato la loro confidenza, ruttandomi in faccia e chiedendomi quanto spesso mi masturbavo.
Tutto ciò mi divertiva molto.

[…continua…]