Monthly Archives: Novembre 2006

E ora c’è anche la me diciannovenne

Da: monaca eretica
"Pensavo… Hai 19 anni… Sei piccola da morire e a volte me lo scordo, per come sei e come pensi. Più si va avanti e più del tempo si ha una percezione strana: i miei 19 anni mi sembrano ieri e allo stesso tempo sono successe così tante cose e ci sono così tante me dietro che mi sembra un secolo"

Così tante me. Pensavo qualcosa del genere poco fa, aspettando i gelati che non arrivavano mai, insieme ai rimasugli sgangherati della classe raccolti attorno al tavolo di un pub. L’ho pensato anche tornando, quando abbiamo incrociato un’ex prof della prima: "siete cambiati tantissimo", "faticavo a riconoscervi".
Anch’io, ogni tanto. Chi era pure quella a cui bastava un saluto? E quell’altra, che si precipitava al telefono? Per non parlare di quella che stava ore alla finestra, senza poter uscire. Quella che scriveva lettere patetiche, invece? E l’altra che al gruppo non parlava mai, l’avete vista? Magari era insieme a quella che aspettava di veder passare Luca. O forse con quella che si tormentava per i troppi invasori di privacy in casa?
[Comincio a ricordare sempre meno. Conosco i fatti, però la sensazione non è più viva. Cadono le vecchie me, a una a una, suicide: sacrificate perché le nuove, arrivando, non se ne vergognino, né si sentano in dovere d’orgogliosa coerenza; ma libere reinventino un’identità diversa – anche sapendo di cestinarla in breve.]
Poi è ovvio, resto la solita cogliona che spera, s’affeziona, aspetta, s’illude, si ribella, chiude, rinuncia per un giorno e alla fine ricomincia a correre ancora più veloce verso qualche mulino a vento. Cambia giusto il modo, l’intensità, il colore; a volte, anche le persone attorno, i soggetti dei pensieri. Per questo una speranza nuova, guardandone una vecchia, sorride di sufficienza: si crede chissà chi, soltanto perché sa già com’è andata a finire la vecchia storia, e può guardarla dall’alto in basso, sfottendola. Finge di non riconoscerla; altrimenti, sarebbe costretta ad ammettere che anche lei, speranza nuova, non è poi tanto diversa. Ha solo imparato a travestirsi un po’, per sopravvivere.

…La macchina non ce l’ho ancora, ma son dettagli

la mia patente!

Venezia

Assurda costruzione con scale capovolte

[Ovvero: due giorni alla Biennale di architettura con tre romani] 

Guardavo e riguardavo quest’immagine, che ho scattato al padiglione Hong Kong della Biennale. Potrebbe essere la tragicomica rappresentazione di un mio incubo notturno, ma la mia mente contorta ha deciso di appenderci anche altri significati. Quest’installazione è stata la mia Venezia: scale, assurdità architettoniche, percorsi impossibili e punti di vista.

Sulle scale non importa dilungarsi; qualche acrobazia l’abbiamo fatta, ma c’è andata pure bene, grazie a quel santo martire che morì per inventare la maratona. Infatti, quando la fanno a Venezia, montano qualche rampa qua e là e si gira un po’ meglio.
Ho detto un po’.

Le assurdità architettoniche sono quelle che popolano la Biennale: innumerevoli padiglioni zeppi di plastici e visioni più o meno realistiche delle città future; in qualche caso mostri di vetro colorato a due passi da costruzioni millenarie, più spesso grattacieli, ponti e torri che gareggiano a rubarsi l’ultima fetta di cielo. Il cielo fisico e quello metafisico, ché hanno pure inventato il cimitero a trecento piani con una lucetta per ogni loculo: mandi un sms al nonno e quello s’illumina. Perché comprare fiori? Perché far chilometri, inquinando e creando traffico, perché sprecare ore del tuo tempo per andare sulla tomba di qualcuno? In pochi secondi puoi accendere un tuo caro e veder da lontano una torretta sbrilluccicosa, pensando che tra quelle luci c’è anche quella del nonno. Altro che stelle. Questa è la città sostenibile.
Già, perché la sostenibilità si misura su scala collettiva, sui saldi demografici e sui metri quadri di verde a persona. Se poi per raggiungere quel verde devi scendere centoventi piani, perché abiti in un grattacielo, e devi dividere quello spazio con tremila persone, perché ti lamenti? Ciascuna delle tremila persone può fare il suo pic-nic familiare nel proprio metro di prato. Un metro uguale a tutti gli altri metri, un metro di tutti e di nessuno, dove non puoi dimenticare i panni stesi o ammonticchiare libri, né piazzarci il barbecue o montarci l’amaca. Nemmeno io lo posso fare, ma almeno nessuno mi viene a raccontare sorridente che ho il giardino.
Una città non dev’essere sostenibile per tutti, ma per ciascuno

Quella strana foto è però anche un percorso impossibile, un’insieme di scale rovesciate e interrotte, passaggi non comunicanti, strade parallele che non s’intersecano mai. Bisogna osservarle per un po’ prima di capire se e come siano intrecciate, e se sarebbe possibile arrampicarcisi in qualche maniera.
Così, m’è venuto da pensare alle mie strade impercorribili, a certe vie che scorrono parallele e tra loro si raccontano soltanto, perché nel mezzo c’è un vuoto troppo largo da saltare.

I punti di vista, infine, sono quelli che sperimentano le cose sottosopra: ribaltano le rampe in gradini e trasformano un’ale che scherza in un’ale che cade. Anche a me s’è capovolto qualcosa, dopo aver girato un po’ a vuoto in stazione, rimuginando su quel che non ho: ho provato a pensare a ciò che invece ho.

veduta notturna

 

[Frammenti

Gio lascia un messaggio sulla lavagna al padiglione ingleseGeografia economica non è affatto una materia inutile. Gio ha una moleskine cui tiene come a una figlia e se la perde va in paranoia grave. Ci fa disegnini minuti e precisissimi di guerrieri e leviatani, oppure ci appunta le domande da lanciare di notte, per farci parlare un po’ di noi. I padiglioni della Biennale si insinuano ovunque: ti puoi ritovare un’installazione cinguettante in albergo. Ale ha un’amicizia perduta che mi ricorda qualcosa. Il caffé omaggio alla Biennale è la mia mente.
Una delle personalità di Gio è un animale da palcoscenico e ama il centro dell’attenzione – quando non sembra, è perché le altre duecentotrenta personalità hanno avuto la maggioranza. Il vaporetto 82 fa solo servizio estivo, ma d’inverno gira normalmente. Gio può anche essere Johnny ma non è di certo Stecchino. scritta sulla lavagna:

Mentre ti spinge, ogni tanto ti s’accuccia sulla spalla così senza ragione – roba che se produci in serie peluche con la sua faccia diventi ricco. A Venezia il vaporetto costa 5 euro. Roma-Milan non andrebbe guardata in un pub ripieno di milanisti. Ad architettura si litiga semplicemente perché si lavora insieme. Al padiglione inglese si potevano lasciare foto e messaggi sulla lavagna. I veneziani sono simpatici, e dandoti informazioni attaccano bottone volentieri. Specialmente se li trovi ubriachi, fuori da un’osteria. Le due Ale fanno troppo ghignare quando prendono in giro Gio su Purini e sui quadrati. Lui ama i quadrati perché il suo inconscio rifiuto verso la propria rotondità gli fa odiare le linee curve. E poi un sacco di altre cose, che spero non andranno tutte perdute.
 

 

io e gio in treno

 

Comunque, anch’io

"Qual è l’amica più preziosa che ho?
La migliore che abbia mai avuto?
Chi?
Sei te e solo te
te
te
te
io non ho mai minimamente pensato a niente di definitivamente divisorio tra me e te in ogni minuto che stasera abbiamo passato insieme..
io non so come te senti te
ma io sto sempre bene dopo che me riempi de cazzotti
magari ti meno
Per quanto può valere
io ti stimo infinitamente
ti voglio bene
ti ringrazio
dal più profondo del cuore
sempre
per ogni litigata
per ogni vaffanculo
per ogni lacrima mia e tua
(il mio obiettivo è farti sorridere piangendo)
Mi dispiace di tutto
io ti voglio un bene che le particelle di moore se lo sognano
ti voglio talmente bene che al confronto il sigma ideale è una lettera greca sfigata
sei una delle cose più preziose che ho
mi dispiace
un sacchissimo
se ti ho fatto del male
mi dispiace per i miei difetti"

[Ecco perché vale la pena fare le quattro del mattino]

Halloween, ovvero: Dag Hammarskjold

Potevo scegliere fra due o tre feste, in qualche pub uguale a milioni di altri pub, guardando bere e chiacchierare e solite cose. Poi è capitato diversamente, sia per stanchezza, sia perché dopo un giorno rumoroso, in giro da un impegno all’altro, cercavo un po’ di pace. E in quella sottospecie di veglia/festa di Ac, di cui mi avevan detto via email, mi sembrava di poterla trovare.

– Scegli: cosa vuoi fare?
Sono stata mezza aggredita sulla porta e, senza tanti perché e percome, ho dovuto decidere cosa mi attirasse di più tra una serie di termini cattolicheggianti quali missione, famiglia, servizio, ecc.. C’era anche impegno civile, e non c’ho pensato due volte. Il tipo ha aggiunto una crocetta al suo elenco, assegnandomi a una tipa che mi indicasse la strada. Per dove? A fare?
Lì ho cominciato a capire che forse non era una festa di Halloween.
Mi hanno catapultato in una stanzetta al terzo piano del campanile, attorno a un tavolo con una decina di giovani, due a guidare il gruppo. In fondo, una lavagna con un nome impronunciabile: Dag Hammarskjold.

Segretario generale dell’Onu, Nobel per la pace e qualcos’altro, di biografie ne troverete a bizzeffe. A me importa raccontare che, per esempio, al piano terra dell’affollatissimo palazzo di vetro fece riservare una stanza della quiete. "L’obiettivo è stato creare in questa saletta un luogo le cui porte possano essere aperte ai terreni infiniti del pensiero e della preghiera." scrive. "Qui si incontreranno persone di fedi diverse, e per questo motivo non si potrà usare nessuno dei simboli cui siamo abituati nella nostra meditazione. […] Secondo un antico detto, il senso di un vaso non è il suo guscio, ma il vuoto. In questa sala è proprio così. La sala è dedicata a coloro che si recano qui per riempire il vuoto, con ciò che riescono a trovare nel loro centro interiore di quiete."
Questo valga come palo nei denti per gli urlatori che polemizzano pro e contro crocifissi vari.

Ma Hammarskjold – e non chiedetemi mai di pronunciarlo – ha anche scritto, tra le tante, una specie di preghiera che ci hanno letto e che, tu guarda, mi ricordava qualcosa. Ho controllato, era proprio la stessa che mi ritrovai fra le mani al campo, su una fotocopia intitolata "Chi è Dio" – tanto per stare sul semplice – insieme a qualche altra poesia.
Mi era piaciuta – ricordo di averlo detto, a luglio, in cerchio all’ombra di qualche albero – perché non si preoccupava di dare troppi nomi a Dio, né sommergeva le domande con qualche totale certezza, arrogante e puntigliosa; ma soltanto parlava di Qualcuno, osando appena la maiuscola. Poi mette in mezzo anche un destino, un senso, tutte cose su cui si potrebbe disegnare e cancellare a lungo, per aggiustare il chiaroscuro finché somigli sempre più al significato inteso; e, ancora, difficilmente ci s’intenderebbe.

Tu, che io non conosco
ma a cui appartengo.
Tu, che non comprendo,
ma da cui ricevo il mio destino,
abbi pietà di noi, così che davanti a Te
nell’amore e nella fede,
nella giustizia e nell’umiltà,
possiamo seguirti
con abnegazione e coraggio
e incontrarTi nel silenzio.

Non so chi – o che cosa – ha posto la domanda,
non ricordo neppure
quando ho risposto,
ma ad un certo punto
ho risposto sì a Qualcuno
e da quell’ora
ho avuto la certezza
che l’esistenza ha un senso
e che perciò la mia vita
nell’abbandono di sé
ha uno scopo.

Da quel momento ho saputo
che cosa vuol dire
non guardare indietro
e non essere
con ansietà
solleciti per il domani.

(Dag Hammarskjold)

[Ecco, una sera così è stata di certo più sensata – qualunque cosa questo voglia dire – rispetto agli altri halloween possibili. E vedere quel cartoncino con su scritto "impegno civile" non fa che ricordarmi certi miei talenti – forse addirittura una specie di dovere – che spero non saranno sepolti e soffocati dal latino impolverato, dagli stili dalla metrica dai carri-tenda dei Vichinghi e dall’andamento demografico in epoca di peste.
Sarà anche che soltanto l’otium giova alla res publica maior, mentre il negotium dei politici serve appena a quella minor*; ma non so quanto l’umanità brami il frutto dei miei deliri letterari. Forse mi ringrazierebbe di più per qualcos’altro
]

*Dal Vangelo di Seneca secondo Dionigi