Monthly Archives: Aprile 2009

Vite

Sonno, uno stupido test su fb, Guccini in youtube nella scheda sotto questa, vorrei ascoltare le parole ma le mie fanno a gara e vincono la pubblicazione.
Prima, una riunione per volontari, la mia capa che racconta le slide di una vita – la sua – con le foto dell’Africa e una Convenzione sui diritti e la sua vecchia associazione di basket e chissà come ha fatto poi, mi domandavo, a finire dietro quella scrivania per tessere zitta zitta le avventure esistenziali degli altri.

L’altro giorno mi osservavo la mano, sarà che da quando ho i calli della chitarra la guardo sempre, e ho ricordato quella vecchia buffa storia della linea della vita – la mia. Allora con due dita dell’altra mano l’ho misurata, volevo mettere il dito più o meno sul punto dei ventun anni; così ho fatto una rapida stima e in un lampo di consapevolezza ho notato che, come minimo, un quarto di vita l’ho già bruciato.

E non ho ancora fatto nulla.

[Dove per fatto s’intende amato?]

Stereotipi

– “Mi dà gioia poter lasciare un sorriso a persone sfortunate…” Uh, è proprio un poeta tenerone…
L’ho guardata storto. Stava leggendo le risposte del mio collega a un questionario sulla valutazione del proprio lavoro. Se c’è una cosa che il mio collega non fa mai è sorridere gioiosamente. E’ un ragazzo dalle occhiaie scavate che in genere scrive su facebook quello che trova cercando “frasi belle” su Google.
– …Dài, sono frasi fatte – ho risposto tra i denti.
– Come?
– Niente
– …Sì, certo che sono stereotipi – ha sorriso la mia capa. – Noi viviamo di stereotipi. Credi che non lo siano, in senso opposto, le tue mail in cui fingi di essere cinica?

Questa donna mi frega sempre.

Così parlate – 4

– Come l’hai trovato? – mi ha chiesto suo padre, in ascensore.
– Bene, molto bene – ho risposto. Cominciavo a capire come mai aveva insistito perché restassi sola con lui.
– Parla di più – ho continuato – mi ha detto un po’ come sta, come si vede in questa situazione…
– Io non lo so, può darsi che abbiamo sbagliato – ha ammesso con umiltà – ma chi era mai capitato in questa situazione…. L’errore l’abbiamo fatto all’inizio, lo abbiamo accontentato troppo, ora si è abituato e non vuole fare da solo…
Il babbo di Angelo capiva. Capiva sporcando la comprensione di sensi di colpa e complessi di inadeguatezza, ma ci metteva tutto se stesso. Io, presuntuosamente, volevo aiutarlo a capire.
– Sai… lui è molto orgoglioso eh – prendiamola alla larga. E’ un odioso consiglio non richiesto, e farà male.
– Eccome…
– …E anch’io sai… quindi lo capisco… forse per uno così non fa bene sentirsi sempre dire che è pigr..
– Ma è che lui potrebbe fare – si è scaldato, mentre mi aiutava a chiudere le porte del terzo piano – quando è arrivato qui gli avevano detto che avrebbe mosso solo la testa, poi invece gli è uscito il movimento del braccio, poi l’altro… e se non avesse il movimento, direi vabbè, è andato, ma dato che ce l’ha, perché non vuole fare un po’ di fisioterapia…?

Ho aspettato che la sua frustrazione straripasse fino in fondo, elencandomi per l’ennesima volta tutte le possibilità che Angelo spreca ogni giorno. E’ un peccato, pensavo: quest’omone tenero trasuda buona volontà e affetto per Angelo, si vede che si tormenta e pensa sempre a come dovrebbe fare. Ma non trova – chi riuscirebbe? – a trovare il confine tra i suoi bisogni e quelli del figlio, è completamente sopraffatto. Non riesce nemmeno a recepire un messaggio senza sovrascriverlo con la sua sofferenza.
– Certo, è che vedi – ho spiegato, pesando la diplomazia in ogni sillaba – mi è sembrata proprio un esigenza che esprime lui stesso – come farti capire che me l’ha detto chiaramente poco fa? – quella di non sentirsi ripetere sempre quello che non fa… è una cosa che metterebbe in difficoltà anche me, capisci. Io onestamente lo vedo: tutte le volte che vengo a trovarlo, qualcuno inizia a rinfacc..
– Ma io non è che glielo dico per me, è per lui – ha continuato, gesticolando la propria innocenza – gli ho comprato i pesi, gli faccio fare io la fisioterapia in più, insomma, io tutte queste cose le ho fatte, fai pure tu qualcosa per babbo
Meno male che lo fa per lui.
Era ora di guardarlo negli occhi e metter fine alle perifrasi.
– Senti – gli ho detto con serietà – darsi una mossa è una cosa che deve venir fuori da lui. Finché gli dite cosa dovrebbe fare, è ovvio che lui penserà di farlo per voi.
Mi ha guardato un po’ perplesso. Ci stava pensando. Mi sono affrettata a chiudere il discorso, perché continuasse a pensarci.

Così parlate – 3

– Come… come te la immagini la tua vita futura? – gli ho chiesto.
– Non lo so – ha scosso la testa. – Non la immagino. Prima, quando ci siamo comprati la macchina con la pedana, e si parlava di tornare a casa… ci pensavo spesso, ero contento… ora non so, ho smesso di pensarci, forse ho paura di restare deluso… perché la data reale del ritorno si avvicina.
Non ho risposto. La televisione ha detto qualcosa, poi è entrata la moglie del paziente accanto, con in braccio il suo bambino color caffelatte. Angelo si è illuminato e ha cominciato a fargli versi e boccacce. Coi bambini si diverte un sacco.
– Tu hai fratelli? – mi ha chiesto poi.
– Una sorella più grande
– Sposata?
– No no
– Fidanzata
– No.. cioè non lo so.. ognuno si fa un po’ gli affari suoi – gli ho spiegato – ecco, su questo la mia famiglia è un po’ diversa dalla tua… invece mio padre è uguale al tuo nel rinfacciare le cose
– Oh, ma tutti rinfacciamo – ha risposto, con uno strano tono saggio. Era proprio la serata della comprensione.

– Sai – ha continuato lui – penso che se non mi fosse successo questo forse avrei preso una brutta strada.
РCio̬?
– Eh… stavo in discoteca fino al mattino… facevo cose che non dovevo fare – ha spiegato vagamente. – Poi gli amici. Quelli con cui ho fatto le cavolate li consideravo amici, e mo’? Spariti. Gli altri invece… quelli che sì mi salutavano e io li salutavo appena, ma così, non me ne fregava niente, beh loro mi chiamano sempre… poi vabbè bisogna vedere cosa succede quando torno eh

Ci pensavo spesso anch’io, guardandolo nelle foto di prima. Un’occhiata al filmino di fotografie che teneva nel computer era più chiarificatrice di mille colloqui psicologici. Un fighetto che aveva mollato la scuola e andava avanti con un po’ di fascino da sbarbino strafottente avrebbe dovuto ribaltare del tutto le amicizie, lo stile di vita, la visione di se stesso. Chissà cosa pensava dei disabili, prima.

[…continua…]

Così parlate – 2

Così mi sono appollaiata coi gomiti alla spondina del letto e della sua sincerità.

Dopo qualche frase di circostanza e un silenzio, gli ho posto la domanda che mi ronzava in testa da tempo. Ho fatto attenzione a porgliela col tono serio, quasi scientifico, di chi vuole solo capire.
– Senti.. ma tu – l’ho guardato negli occhi – come mai non fai da solo anche quello che potresti.. cioè.. è vero quel che dice tuo padre?
– Sì, è vero – ha risposto. Aveva una voce diversa dal solito, si era attestato anche lui sul livello di serietà che gli avevo proposto. Avevo bypassato lo strato dell’ironia e quello delle scuse vittimiste. Lo sapevo che era la serata giusta.
– Ha ragione. E’ che è faticoso, tu non sai… sono stanco. All’inizio ero io che non collaboravo eh, per carità è vero… ma poi.. da gennaio, che mi hanno tolto la tracheo, ho cominciato a voler fare di più… ma i miei ogni volta che viene qualcuno ripetono tu sei pigro, tu non fai, tu dovresti… e poi è ovvio che non faccio.

Come lo capivo. Orgoglioso – come me – e incastrato nell’impossibilità di cambiare un ruolo precedente. Gli ho stretto un braccio con tutta la mia empatia. Mi sono chiesta se lo sentiva.
– Lo so… – ho sorriso – guarda, ho quasi paura a venirti a trovare, perché so che appena arrivo i tuoi iniziano a sfogarsi…!
– E poi… – ha ripreso, cupo – mi scoccio perché è inutile, perché vedo che tanto non mi muovo. Io non mi sono ancora reso conto davvero di quello che mi è successo. Continuo a pensare a come ero prima… quello che non posso più fare…

…Certo, non pensa a quello che potrà fare, alla vita da costruire. Le possibilità rimanenti, qui, sono solo la cornice vuota di quelle perdute. Il futuro è una nostalgia.

[..continua..]

Così parlate – 1

– Ehi, vi hanno atterrati! – ho detto affacciandomi alla stanza di Angelo. Prima lo avevo cercato alla sua solita stanza, al secondo piano, rischiando di salutare con qualche allegro insulto l’ignaro vecchietto che aveva preso il suo posto. Angelo è stato trasferito al piano terra – quello dei post-acuti, quello di chi comincia a intravedere l’uscita.
La camera se l’è ricostruita com’era di sopra: tutti i disegni alle pareti, la foto di Maradona e di lui prima – in piedi con le mani in tasca e la camicia fighetta, lo sguardo abbronzato da sotto in su, con gli occhi semichiusi da bello maledetto. Me l’aveva accennato, una volta, che le donne le illudeva e poi le mandava via.

Ero andata a trovarlo in un buon momento. In generale il periodo era buono, ogni tanto in sala informatica lo sentivo chiamarmi in falsetto – Ilaaa’! – o gridare qualche presa in giro. Era diverso tempo che non mi fermavo a parlare con lui; forse perché non era più una novità, una sfida interessante – piuttosto mi sembrava una sfida persa, lui per primo non voleva giocarsela. Almeno, non come pareva a noi.
Ma quel giorno ero tornata a cercarlo in camera. C’era rimasto solo suo padre accanto al letto, che gli dava da mangiare. Sembrava in buona.
– Che ti mangi stasera? – ho chiesto ad Angelo.
– Pasta in brodo – ha risposto il padre, annegando il cucchiaio in una pappetta marrone. – Lui potrebbe mangiare da solo ma non lo fa – ha continuato – è più comodo farsi imboccare eh…
Ok, sembrava in buona. Forse lo era anche, in fondo sciorinava il solito elenco di pigrizie di Angelo, ma senza l’acredine sofferente della madre. Angelo ne rideva quasi, rassegnato, mentre io cercavo disperatamente di cambiare argomento.
Dopo un po’, il padre si è offerto di uscire per lasciarci soli.
– No no vabbè… – ha declinato Angelo, ostentando indifferenza come al solito.
– No dai, vi lascio soli così parlate – ha insistito, e se n’è andato, lasciandomi piacevolmente sorpresa da questo guizzo di sensibilità paterna. Avrei presto scoperto che non era per caso.

[…continua…]

Meno male che è l’era della comunicazione.

– Tanto lo so che non ti piaccio
Ha detto, di là dalla webcam. L’ho guardato e ho odiato il fatto che via webcam non ci si guarda mai negli occhi, perché o guardi l’obiettivo o guardi gli occhi dell’altro e se guardi gli occhi dell’altro ovviamente l’altro vede i tuoi occhi abbassati perché non stai fissando l’obiettivo.
Contemporaneamente, ho amato il fatto di non aver acceso il microfono, per cui ho potuto pensare a una risposta, scriverla, cancellarla, decidere di non scriverla e ridurre a icona l’ingiustizia cosmica di cui ero strumento.

Ma ho odiato, più di tutto, vedere di sfuggita la mia espressione tacere d’impotenza nel riquadro sotto al suo.

[Chissà per quale disperazione era tornato a contattarmi]

Mi han detto

che questa mia generazione è preparata…

(ecc. ecc.)

[sarà vero?]

Wislawa Szymborska, ABC

Ormai non saprò più
cosa di me pensasse A.
Se B. fino all’ultimo non mi abbia perdonato.
Perchè C. fingesse che fosse tutto a posto.
Che parte avesse D. nel silenzio di E.
Cosa si aspettasse F., sempre che si aspettasse qualcosa.
Perchè G. facesse finta, benchè sapesse bene.
Cosa avesse da nascondere H.
Cosa volesse aggiungere I.
Se il fatto che io c’ero, lì accanto,
avesse un qualunque significato
per J. e per K. e per il restante alfabeto.

Ci vediamo nel tuo disegno – 5

Giorgia ha salutato tutti col suo abituale fiume emotivo, senza schermi e senza riserve. M’è tornato in mente quando mi vide per la prima volta e mi abbracciò, così dal nulla, solo perché era il mio compleanno. O quando era ora dello svuoto – il cateterismo – e mi impedì di andarmene, dicendo che non le importava di spogliarsi di fronte ad altri. Poi si fece coprire perché aveva notato che stavo fissando insistentemente il mio cellulare, fingendo di scrivere un messaggio lunghissimo per non doverla guardare.

– Ci sono persone qui con cui magari non è che mi sono confidata chissà quanto – diceva a una signora che era venuta a salutarla – ma non importa, si è creato come… un filo, un filo, vedi, come tra noi due – la signora annuiva decisa – o come con questa ragazza che è veramente…
Ho fatto in modo di cambiare argomento prima che quella ragazza si sentisse troppo in imbarazzo. Mi sono accorta che ci stavamo tenendo la mano.

Altre persone sono venute a scambiarsi telefoni e speranze. Piovevano auguri di guarigione, di rivedersi, la prossima volta, da in piedi. Giorgia mostrava orgogliosamente di poter muovere un piede, rivendicava miglioramenti alle mani non previsti da quei menagrami dei medici.
Siccome lo dicono tutti i pazienti, non ho ancora capito se sono loro che deformano la realtà per darsi speranze, o i medici che fanno regolarmente previsioni al ribasso per mettere le mani avanti.

Mancava un quarto d’ora all’orario di chiusura dell’ospedale, quando ci avrebbero mandato via. Io aspettavo e le tenevo la mano.

Finalmente ha preso il biglietto coi miei contatti e il P. S., tenendoselo a distanza per riuscire a vederci, e l’ha letto ad alta voce.
– “Pi Esse: Ricordati che sono prigioniera delle parole: ci vediamo nel tuo disegno”…
Giorgia ha riso d’affetto e ha detto qualcosa di tenero. Quando se n’è andata anche l’ultima visitatrice, le sono saltata sul letto per riuscire ad abbracciarla.
– …Sono proprio contenta di averti conosciuto – le ho detto.
Sapevo che non avrei saputo dire granché. Avrei voluto dirle che credevo che sarebbe riuscita ad essere felice, un giorno. Che avrebbe costruito un ponte su quel buco che ha dentro e sarebbe arrivata dall’altra parte sana e salva.
– Anch’io – ha risposto, poi mi ha abbracciato sbaciucchiandomi come faceva mio padre.

Ma non gliel’ho detto, che sarebbe riuscita ad essere felice, perché non ne ero del tutto sicura. Perché nella mia voce forse avrebbe sentito un tono di dubbio, una scheggia di paura.

Quando sarò a casa non vorrò vedere nessuno. Mi chiuderò in camera col mio pianoforte, e piangerò.

Avrei anche voluto dirle che mi sarebbe piaciuto conoscerla in un’altra circostanza, senza che fosse così ribaltata dalla sua personale tragedia. Così sarei stata io a raccontarle la mia vita, e mi sarei fatta spiegare come si fa a essere bambine senza aver paura.

Sai, quando mia sorella era piccola le dicevo che il cielo stellato era una magia. Solo che un giorno c’erano le nuvole, e lei mi chiese ma come, oggi la fatina non ha fatto la magia?

Sono scesa dal letto e le ho augurato buon viaggio. Ho baciato sua madre e suo marito, li ho salutati di nuovo, ho aperto la porta, mi sono voltata ancora.

– Ci vediamo nel tuo disegno!