Monthly Archives: Gennaio 2009

E lasciare che un’altra storia cominci

– C’è mister Magorium in tv – ha sorriso indicando Sky Cinema. Dalla cuffia sul cuscino usciva uno scricchiolìo di voci. – E’ molto bello… è un film pieno di fantasia, guarda, guarda adesso! Vedi, quel giocattolo era grigio ma ora è tutto colorato perché il bambino ci ha creduto!
Giorgia avrà più di quarant’anni ma riesce ad essere bambina come, forse, si può solo da adulti – quando non si deve più dimostrare niente. Al telefono chiama ancora il marito tesorino e se vuole può raccontarti anche il pranzo del giorno col tono magico ed entusiasta di una lettrice di favole. Poi a volte, quando si ricorda che il finale della sua favola personale di pianista jazz è stato improvvisamente riscritto, piange.

– Sai, quando mia sorella era piccola la portavo alla villa comunale – raccontava – c’era un trenino… quando lei non voleva mangiare la portavo sul trenino, che passava in mezzo a un piccolo zoo, e le dicevo… ecco, siamo in Africa! E ora siamo in India, e ora…
– …Oppure – continuava – le dicevo che il cielo stellato è una magia, solo che un giorno c’erano le nuvole, e lei mi chiese ma come, oggi la fatina non ha fatto la magia?
Rideva. Giorgia ride senza far rumore, spalancando la bocca senza fiato. Mi sono appollaiata col mento sullo schienale di una sedia, guardandola.

– Ti piace fantasticare, eh – le ho detto. E ho pensato che io forse non ho mai saputo farlo.
– Sì, molto. Ma dal 28 maggio non ci riesco più.
Si fa scura in volto. Mi aspetto che le si spezzi la voce, e invece continua in tono razionale, come se si stesse spiegando un pensiero.
– Non ci riesco perché devo ancora scoprire le mie possibilità. Ora che faccio? Prova ad andare in piscina, provo il corso di computer, provo a dipingere… ma di queste cose, che m’importa? Le faccio adesso per… esplorare le possibilità, capire cosa posso ancora fare. Poi c’è il secondo livello, ed è scoprire… a cosa mi servono, cosa voglio fare. Mi serve dipingere? No, non sono brava, e nemmeno mi interessa, non è così che so trasmettere emozioni…

Ti chiedo solo di girare la pagina – gracchiava la tv dalle cuffiette. Mr Magorium stava per morire e si congedava. – …di continuare a leggere, e lasciare che un’altra storia cominci.

[ – Hai sentito? – mi dice, allungandomi le cuffie. – E’ la stessa cosa che mi hai detto tu l’altro giorno… ]

Ponti

Sono andata a salutare Giorgia nella sua camera, come tutte le sere. Ho bussato alla porta che la sua vicina di letto fa sempre chiudere, sono entrata piano e l’ho raggiunta nella penombra di luce già spenta screziata dai televisori.

– Hai le mani fredde! – mi ha detto tutta sorridente, mentre mi salutava prendendomi per mano. – Sai stamattina mentre mi lavavo… ho sentito la temperatura dell’acqua sulle dita!
– Eh! Hai visto, piano piano…
– …Si suona il piano – ha scherzato, con la speranza negli occhi.

Non so se Giorgia potrà mai suonare il piano di nuovo. Qualche giorno prima si era figurata il suo ritorno a casa:
– Quando tornerò mi chiuderò in camera – aveva detto, con voce rotta – guarderò il mio pianoforte, e piangerò.
L’avevo fissata per un po’, senza rispondere. Cosa puoi rispondere?
– …E’ come un lutto… ti rimane per sempre – ho azzardato. – E’ una specie di buco…
Mi venivano in mente le gobbe nel giardino di Buzzati, se ne solleva una ogni volta che qualcuno muore, così lui è costretto a ricordarsene ogni volta che ci passeggia sopra.
– …Che non puoi colmare – le dicevo. – Però, col tempo… ci costruisci un ponte sopra. Il buco resta, certo. Ma dall’altra parte, in qualche modo, arrivi lo stesso.

Quella sera lì, tornata nella casa d’accoglienza dove dormo quando lavoro, ho disegnato sulla moleskine un buco con un ponte sopra.

[E ora, proprio ora mentre scrivo, ho capito cosa sono quelle toppe di inesistenza, calce o cenere…]

Simona

Ho conosciuto la sorella di Giorgia perché viene a trovarla spesso in ospedale. E’ molto più giovane di lei, e ha in faccia occhi smarriti da sorella minore così abituata a farsi considerare piccola e svampita da diventarlo veramente. Quando parla abbassa un po’ la testa e addolcisce all’estremo l’intonazione, come a pregarti di non bastonarla. Se sorride, il viso si piega in un’espressione stranissima, per cui gli occhi sembrano piangere.
Un giorno abbiamo pranzato io e lei, al bar, e mi ha raccontato le sue esperienze spirituali.
– Il mio padre spirituale è un prete molto anziano – mi ha detto – che ha un particolare carisma… il carisma della profezia
Non ero sicura di aver capito bene.
– Sì, sì, lui a volte riesce a capire certe cose che poi succedono veramente… perciò io ho fiducia… sai, lui ha promesso per mia sorella una bella sorpresa
РMa tu gli avevi detto che tua sorella ̬ diventata tetraplegica?
– No, no, l’ha detto prima che succedesse
Ah, ecco qual era la bella sorpresa.

Simona ha una trentina d’anni e abita insieme a un’altra sorella sposata, con la quale litiga quotidianamente perché questa vorrebbe che lei si occupasse della casa – cosa che invece non fa, dato che usa tutto il suo tempo libero per studiare pianoforte, gettandosi più o meno inconsciamente in un’inutile corsa per raggiungere la sorella. Aveva iniziato Economia, ma si deprimeva, sentiva che la sua strada era un’altra, perciò ha mollato tutto e si è iscritta al DAMS musica, con la benedizione di Giorgia. Più tardi ha cominciato con lo studio del pianoforte, e ora ci dà sotto per recuperare il gap rispetto a chi ha iniziato da piccolo.
Un giorno ha portato a Giorgia una tastierina, in ospedale, e gliel’ha messa sul letto, appoggiata sulle gambe insensibili. Poi ha cercato di suonare qualcosina con una mano. La sorella la correggeva con la spiccia severità di una laureata in pianoforte che non muove più le mani, e che se potesse suonerebbe quel branetto in un soffio di dita. Ma lo faceva mantenendo sempre un affetto sottinteso, sembrava abituata al ruolo protettivo di sorella-mamma.
– Un giorno che ero in crisi nera – mi raccontava Simona al bar – lei non mi disse niente, solo prese due tele e cavalletti, e mi portò in spiaggia. Io non capivo. Arrivati là, montò le tele, tirò fuori i pennelli, e mi disse: dipingiamo.

Non so perché, ho immaginato a lungo questa scena. Forse i pazienti dell’ospedale mi stanno attaccando la loro irrisolvibile nostalgia, così inizio a trastullarmi anch’io nel figurarmi questa signora, appena un po’ più giovane, che accompagna in spiaggia una ragazzina spersa e le insegna a dipingere un lungomare d’inverno, coi piedi ben fermi nella sabbia e i ricci rossi spazzati da un vento salato.

E chi te l’ha chiesto – 2

– Lui se l’è andata a cercare, lui! Ed è per colpa sua se si è rotto il collo e adesso siamo qui… siamo qui… io non lavoro, ora pure mio marito ha difficoltà… eppure stiamo qui da un anno e mezzo…
– Appunto – le diceva Pietro – prenditi una pausa. Non ce la fai, sei stanca, non reggi più…
– Non ce la faccio io? E ce la fanno gli altri? Lui non può fare senza di me, non può fare – scuote la testa. – Chi gli cucina, poi? Mia figlia? Ma non ce la fa, una volta che ho dovuto farlo fare a lei arrivava a sera distrutta che mi chiedeva mamma mamma per favore stasera vacci tu da Angelo… ma povera ha sedici anni cosa vuoi farle fare! Devo starci io con lui… e ci sto sempre… ma niente gratitudine… ci fosse una volta che dice grazie… che dice grazie mamma buona la cena che hai preparato… no… dice sempre di no… solo col padre… un po’ di più lo rispetta… e a me mi caccia via…
– …I figli non sono mai grati ai genitori – le ho detto. Avevo ascoltato a lungo senza intervenire, facendo i conti dentro di me di mare di disastri relazionali che leggevo in quelle parole, dal rancore verso il figlio alla tonnellata di sensi di colpa che gli scarica addosso, passando per la rivalità col marito e chissà cos’altro.
– E’ normale che sia così, è una specie di ruolo. Anch’io sono così. I figli saranno grati, forse, dopo. Ma a diciott’anni no, nessun figlio è grato ai genitori.
Soprattutto quando i genitori cercano di imboccarti a forza di fronte ad estranei anche se hai diciott’anni, approfittando del fatto che non ti puoi muovere e umiliandoti definitivamente, ho pensato, ma questo ho evitato di dirglielo.

– Stare sempre fermi è una cosa allucinante – ho continuato, notando che mi ascoltava con attenzione. Devo stare attenta a quello che dico, ho pensato, qui la gente mi prende tanto in considerazione che mette in pausa anche l’ira furibonda, fissandomi ad occhi bene aperti. E magari dico una stronzata. – Vedrai che appena guadagnerà un po’ di autonomia in più sarà anche molto, molto più tranquillo. Dipendere dagli altri rende insofferenti. Ci si sente impotenti, si perde la libertà. Perciò si combatte per difendere ogni briciola di indipendenza, ci si impunta. Il problema non è mangiare la carne o no: è vedere se quel che si dice, che si chiede, ha un valore. Verificare se almeno la propria parola ha ancora un potere, dato che il proprio corpo l’ha perduto.

Più tardi, Pietro mi ha aiutato a chiudere la sala informatica, finalmente vuota e silenziosa.
– Se la prendono coi genitori perché siamo i più vicini, è normale, devono sfogarsi contro qualcuno, anche mia figlia è così con me…
– Mah, sai cos’è – ho risposto, spegnendo un computer – è semplicemente che Angelo è ingrato e ribelle esattamente come gran parte dei diciottenni del mondo, e, se lui stesse bene fisicamente, la madre la finirebbe lamentandosi un po’ con una vicina di casa. La differenza è che i suoi genitori, data la situazione, devono sbattersi molto di più della media, perciò pretendono molta più gratitudine e soffrono il triplo se manca.
– Sì, dev’essere così.

E dev’essere che forse il rispetto non si compra col cibo e con le cure al corpo, ma si guadagna rispettando la libertà dell’altro.

E chi te l’ha chiesto? – 1

– Avanti – grida – mangiati ‘sta carne finché è calda! Mangiala!
Sento il rumore del cucchiaio contro i denti digrignati del ragazzo. La madre esasperata cerca di spingergli il cibo in bocca, mentre impreca in un napoletano rapidissimo cose che non capisco. Un signore si alza per calmarla, la prende per le spalle, la conduce a sedere. Angelo Рil ragazzo Рtace e immobile la odia con gli occhi, finch̩ la sorella lo porta fuori.

L’avevo vista turbata, la madre, già mentre entrava in sala informatica col suo cartoccino d’alluminio e un’espressione stranamente seria. Erano le sette e mezza, tenevo aperto come al solito oltre l’orario, perché Angelo stava finendo una partita a dama col suo sfidante più ostico, Pietro; erano rimasti loro e una famigliola con bimbi sparsi tra i vari computer.
– Ho fatto una corsa per portartela calda – aveva detto lei, senza sorridere. Sembrava presagire il rifiuto. Forse per quello, oltre alla carne, ha subito offerto al figlio un po’ di senso di colpa: ho fatto una corsa, capito?
– Non ho fame – aveva risposto Angelo col suo solito filo di voce, senza togliere gli occhi dalla scacchiera. – Dopo.
– Ma adesso è calda! Tu non sai cos’ho dovuto fare per portartela in tempo, sono salita con il ghiaccio per questa strada che mi prende un colpo ogni volta che curvo con la macchina e ho paura di ammazzarmi! Ci ho passato due ore a farti la cena e sono corsa qui, mo’…
Angelo non rispondeva. Gli occhi dicevano: …E chi te la chiesto?
– Stai calma – interviene l’avversario di Angelo – ora… ora finiamo la partita e poi mangia, vero?
– Ma che partita e partita, Pietro! Che credi che è per quello? Guarda che non è per quello che non mangia, è che vuole aspettare il padre! Tutte le volte è così – le si incrina la voce – è solo che quando una cosa gliela porto io non la vuole, invece col papà… col papà…

Da lì alla scena madre non c’era voluto molto. Più tardi, uscito Angelo, si è seduta al tavolo piangendo, mentre Pietro elargiva buon senso.
– Siamo noi che dobbiamo capire – diceva lui. – Loro sono in difficoltà adesso, spetta a noi genitori…
– E che, io non sono in difficoltà? E’ un anno è mezzo che stiamo qui dietro a lui… ma quello è sempre stato una testa dura… anche prima… perché credi che sia finito così? Perché? Perché quel giorno… quel giorno lui era tornato a casa alle sei del mattino… e poi voleva andare al mare… e noi a dire no, no che sei stanco, statti a casa, che ci vai a fare a mare! Ma lui no, ci devo andare… e poi il tuffo… i suoi amici me l’hanno detto… ci dispiace tantissimo signora, noi gliel’avevamo detto che era pericoloso, gliel’abbiamo detto cento volte… ma quello no… l’unico modo era prenderlo di peso e portarlo via, lui era convinto, una testa dura, diceva io ce la faccio… io ce la faccio… io ce la faccio……

[continua…]

Catullo, carme 8

Miser Catulle, desinas ineptire,
et quod vides perisse perditum ducas.
fulsere quondam candidi tibi soles,
cum ventitabas quo puella ducebat
amata nobis quantum amabitur nulla.
ibi illa multa cum iocosa fiebant,
quae tu volebas nec puella nolebat,
fulsere vere candidi tibi soles.
nunc iam illa non vult: tu quoque impotens noli,
nec quae fugit sectare, nec miser vive,
sed obstinata mente perfer, obdura.
vale puella, iam Catullus obdurat,
nec te requiret nec rogabit invitam.
at tu dolebis, cum rogaberis nulla.
scelesta, vae te, quae tibi manet vita?
quis nunc te adibit? cui videberis bella?
quem nunc amabis? cuius esse diceris?
quem basiabis? cui labella mordebis?
at tu, Catulle, destinatus obdura.

Non dovrei rileggere

i post-affetto di due anni fa

perché poi le possibilità sono due:

– o l’altro non è più come prima
– o l’altro è come prima, ma intanto io ho scoperto un altro tipo di amicizia, e quella vecchia ora mi appare nella sua inesorabile insufficienza.

[Mi consolo pensando che la seconda possibilità, forse, è sana]

E non c’è altro da dire

scia lasciata sulla neve

pupazzo di neve

[Abbiate pazienza, era il primo pupazzo di neve della mia vita]

Anna

– ..Infatti questo è un pensiero sviluppato più da Hegel, che..
Mi ero persa qualche pezzo del discorso, gli voltavo le spalle stando al computer. Lentamente ho distolto l’attenzione dalla mia mail per connettermi al filo di parole tessuto dalla voce maschile dietro di me.
Mi sono girata. Parlava un signore alto e brizzolato, seduto al tavolo centrale della sala informatica semivuota. Davanti a lui, una donna dai tratti nordici gli rispondeva con accento straniero. Era sulla cinquantina, con corti capelli grigi e occhi vivissimi dentro orbite scavate, e si cullava placidamente su una carrozzina troppo larga.
Rimasi ad ascoltare gli ultimi pezzi della conversazione – piuttosto insolita, in un ambiente ospedaliero tutto preso da drammi personali e necessità pratiche impellenti.
– Insegna filosofia? – mi sono intromessa, quando ha smesso di parlare.
– No, altrimenti non mi piacerebbe così tanto – sorride.
In effetti.

Anna è olandese, ma da trent’anni abita in Calabria col marito ingegnere – e filosofo per passione. Lei ha vissuto tredici anni in una comunità di normodotati e disabili. Come fisioterapista.
Poi è stata colpita da un virus del midollo spinale – di quelli che prima ti paralizzano del tutto ma poi, di solito, ritorni almeno zoppicare – e per una sorte ironica è passata dall’altra parte della barricata.
Forse per questo – oltre che grazie a un male meno inappellabile di altri – emanava serena consapevolezza. E’ forse l’unica a cui ho sentito dichiarare con sicura tranquillità che non avrebbe più camminato come prima.

Una sera ho trovato chiusa la porta della biblioteca, subito accanto alla sala informatica; così l’ho aperta per controllare.
– Oh… scusate – ho detto ritirandomi in fretta.
– No no, entra pure!
Avevano acceso solo un neon. Nella mezza luce li ho visti seduti da parti opposte di un tavolino, di profilo contro l’ampia vetrata che dà sulle colline.
– Scusate, è che di solito la porta resta aperta e non capivo…
– Noi l’abbiamo trovata chiusa – mi ha spiegato Anna. – Tant’è che pensavamo di non poter entrare… ma ci siamo messi qui lo stesso, a guardare il paesaggio
– Prima abbiamo spento la luce per vedere meglio – ha aggiunto lui – era proprio bello, il sole che cala sulle colline innevate…

Sembravano racchiusi in un’intima bolla di quieta eleganza e cortese semplicità. Ecco, ora non eravamo più in una stanza disordinata con un paio di scaffalature e dipinti del laboratorio sparsi ad asciugare; avevano evocato quantomento un tiepido salotto da tè morbidamente arredato.
Non mi restava che affondare su un divanetto, e farmi raccontare.

Riassumendo

55% sfide delle relazioni umane difficili (servizio civile)
20% vagonate di affetto (vita sociale)
10% allenamento della sensibilità poetica (studio latino)
10% ragionamento tecnico-creativo (lavoretto come tecnica informatica)
5% politica (rappresentanza studentesca)

Forse le percentuali vanno aggiustate un pochino,

ma sono esattamente le cinque cose a cui dedicherei la vita.