Monthly Archives: Febbraio 2006

Oceani

mare siculo

M’è venuto in mente sul pullman, mentre si parlava di Bukowski e di letteratura. D’un tratto, una frase, e ho visto il tempo bussare al finestrino e dire ehi, sto passando.

Adesso, penso agli oceani d’acqua, di tempo, di cambiamento, in cui qualcuno è già sparito; e mi domando quanti altri vi annegheranno, di qui a pochi mesi. Alcuni subito travolti dalle prime ondate di luglio; altri, più testardi, logorati lentamente dalla risacca quotidiana dei nuovi impegni, di una vita diversa.
Sarà anche vero che nessun luogo è lontano; eppure esistono luoghi lontanissimi a pochi metri di distanza, abissi che s’insinuano nelle pieghe dei giorni, infradiciando i rapporti di estraneità.

E io, di questi, ho un po’ paura.

Non avrei dovuto

abbassare lo sguardo e passare oltre, facendo finta di non vedere. E’ stupido, infantile, vigliacco; e, soprattutto, non volevo. Sarebbe stato più bello salutarsi, sorridere, e basta.
Ma si fanno tante cose che non si vogliono, stando infangati in questa specie di paura.
[O sarà che dà più sicurezza, pensare di essere stata io a fuggire]

“L’unica era aspettare. Lucio aveva saputo da poco che la coda, se te la spezzano, poi ti può ricrescere. Ci vuole solo tempo. Lo aveva saputo da poco e gli era cambiata la vita: di colpo era diventato grande. Forse diventare grande è solo questo: sapere che la coda ti può ricrescere.”
(Paola Mastrocola, “Che animale sei?”)

[Anch’io ho scoperto che può ricrescere. L’ho scoperto trovando un pensiero accoccolato fuori dal portone, che dormiva. Ogni tanto passo di lì e quello apre un occhio e si rigira, perché non lo dimentichi. Però, da qualche tempo, ha smesso di bussare.
C’è un silenzio nuovo, dentro
]

Indignazione.

Allora.
Questo testo l’ho pescato su internet. La questione trattata è la sessualità dei disabili e, in particolare, quella di chi ha malattie trasmissibili ai figli. Al che mi sono fischiate le orecchie, e ho letto. Ahimè.

L’autrice si chiede: Si deve collaborare con Dio a non generare dolore? La risposta è affermativa – e fin lì, volendo, si poteva anche concordare. In tutto il testo, però, la contraccezione non viene mai citata. Dunque, indovinate come viene risolto il problema?
È auspicabile che una persona affetta da patologia fonte di handicap fisico geneticamente trasmissibile non eserciti la propria genitalità ma viva ed “inventi” l’esercizio della propria sessualità in modo sublimato e trascendente, mantenendo intatta e se e possibile migliorandola, la propria “salute sessuale” e mentale. Si, insomma, quella salute che tu hai perso da tempo, affogandola nell’acqua santa. ”Ammettendo” l’esistenza di una sessualità anche per gli handicappati, (la ammettiamo? Ah, ma tra virgolette, mi raccomando!) si può rivalutare la visione della sessualità in generale, tentando di abbattere i numerosi tabù e stereotipi imperanti. In tal senso si vuol rilanciare una sfida socio-pedagogica incentrata sul “servizio”. Tale sfida deve saper proporre una sublimazione (!) intelligente e ricca di spunti, suggerendo un’alternativa viva all’esercizio, in questi casi per molti versi “castrante”, dell’apparato riproduttore.

E quale sarebbe l’edificante alternativa?
Il portatore di handicap fisico geneticamente trasmissibile può intuire, talora non senza sofferenza, l’opportunità di fermarsi al gradino dell’Amicizia, che potrà rendere particolarmente intensa, (ah beh, questo sì che mi rincuora!) mettendosi in condizione di avere parecchi Amici. In tal modo […] sarà un “superdotato”, sopperendo così ad “altre carenze” e vivrà gradino dell’Amore, in maniera un po’ speciale.
Istruzioni: prendere una frittata, lanciare in aria la frittata, rivoltare la frittata.
Ora, trasformare un limite in un vantaggio è, in generale, una cosa positiva: se hai una difficoltà, fai bene a cercare qualche modo utile di sfruttarla. Spacciare un limite per vantaggio è già più ipocrita, tipico di chi rifiuta di affrontare la realtà per come è, dipingendosela con colori più sopportabili.
Ma inventare un limite che non esiste, e poi vendertelo come privilegio, è una violenza. Una violenza verso la realtà, totalmente manipolata, e verso le persone, quelle che ci cascano, che ci credono, e rinunciano certe esperienze solo perché sono convinte di non poterle fare – e pensano che, in fondo, sia meglio così.

L’elogio del contentino-amicizia prosegue: occorre educare la persona all’Amicizia che può vivere pienamente arricchendola di profondi significati. […] L’amicizia infatti ha a sua disposizione innumerevoli modi di esprimersi in cui il corpo può avere la sua parte senza dover ricorrere alla genitalità. […] Infatti anche quando non vi è un rapporto genitale, ma la “compenetrazione” affettivo-amicale è grande, si può raggiungere quella gioia, rasserenata e rasserenante, che a detta di psico-sessuologi è il prodotto meglio riuscito di un vero atto sessuale, frutto d’amore. Tale possibilità è offerta anche alle persone portatrici di handicap!
…Ma grazie! Troppo gentile!

La promozione di un vero amore d’amicizia […] è la sfida vincente in questo complesso settore dell’umana sofferenza (”settore dell’umana sofferenza”? é.è). Tale amore diventerà per il portatore di handicap (geneticamente trasmissibile) “il” modo alternativo dell’esercizio della propria sessualità e sarà modo concreto di raccogliere la “sfida”, che in termini cristiani è vocazione!
…’Azzo, hai capito… astinenti di tutto il mondo, perchè dite di essere sfigati? C’avete la vocazione!

Solo che alle vocazioni, di solito, si può rispondere liberamente. Non mi risulta che il Padreterno sia mai sceso a prendere un tizio per la collottola, trascinarlo in seminario e fargli pronunciare i voti sotto minaccia di fulmine divino. Queste cose di solito le fanno gli uomini.
Anche la nostra autrice coglie la differenza, distinguendo il celibato volontario per il Regno, proveniente da vocazione comunemente intesa, e il celibato “involontario”, indotto da patologia, ma liberamente e consapevolmente “riscelto” come “vocazione-sfida”.
Indotto da patologia? Uhm, non sapevo esistesse il Morbo del Celibato. Una malattia che ti piglia e t’impedisce di innamorarti. Sarebbe un po’ triste, eh.
E invece, non solo il Morbo del Celibato, secondo l’autrice, è automaticamente connesso a tutte le malattie genetiche – sei malato? Sarai single – ma te lo devi pure riscegliere. Cioè, ti deve piacere, e devi stare contento d’esser zitello/a. Mica azzardarti a combatterlo eh! Non ci provare, a infatuarti di qualcuno, ché poi ti vien voglia di portartelo a letto e, siccome non vuoi far figli, dato che sarebbero malati, cadi nella tentazione di usare qualche contraccettivo satanico! Pape satan aleppe!

Si conclude così: è parso utile intervenire al proposito offrendo uno spunto di riflessione che incoraggia la riscoperta di una castità gioiosamente vissuta e piacevolmente “interpretata”!
A me non pare molto gioiosa, come interpretazione. Casomai, mi sembra la visione rassegnata e un po’ frustrata di chi ha avuto bisogno di elaborare una teoria consolatoria per le proprie disgrazie; ma so che purtroppo non è nemmeno così, non posso liquidarla come la visione personale di una signora qualunque. Questo articolo stava su un sito di bioetica, e ogni tre righe rimandava a saggi altisonanti di qualche pensatore cattolico; ho il nefasto presagio che sarebbe ampiamente condiviso da zio Ratzy & C..

Per la cronaca, conosco l’autrice. Telefona spesso a casa mia e l’ho vista giusto l’altro giorno. Và, è pure simpatica, a prima vista.
Sempre per la cronaca, è disabile. La prossima volta che la becco indago se è sposata/convivente/morosata.
Secondo me, no.

Non gridate più, non gridate

Mi piacerebbe, adesso, lasciare che le cose trascorse si posino tranquille sul loro tempo, finalmente, adagiandosi in pace come una nevicata leggera. 
Sono già passata al mercato delle ragioni, ma le avevano finite – i torti, invece, restano sempre in magazzino – e ora non m’importa di sapere che fa sull’autobus, e se saluta; ché nel mio fango mi sono rivoltata tante volte, e so cosa fa la vergogna e l’imbarazzo e la poltiglia di sentimenti andati a male.
Potrei divertirmi a profanare i morti e trascinarli per il campo; farmi prestare qualche spada – c’è chi ne tiene a bizzeffe – e squartare un ricordo fino alle ossa, finché non si riconosca nemmeno più; così, quando l’avrò sfigurato, potrò raccontare la mia verità, qualunque verità, e voi mi crederete.
Eppure, io sento (lo so) che ogni pugnalata me la darei fra le costole – le mie, costole; ché uccidere il passato è tagliar via un po’ di se stessi. 

Non mi va di rinnegare; in quegli anni – uno, due forse – mi sono crogiolata ed esaltata divertita sentita stupida e importante e tormentata e comunque ci ho vissuto – dici bene tu, come di un innamoramento; il prezzo l’ho pagato – ogni tanto arriva ancora qualche rata di mancanza – e non voglio domandarmi se ne sia valsa la pena (i conti della vita non puoi farli che alla fine); tanto è stato, e così sia.  
Vorrei, soltanto, che restasse un buon ricordo; così se un giorno, forse, poi, ci rincontreremo, non avremo più bisogno di scappare.

Teoria

sgrammaticato biglietto della mia domestica: presentarsi in via dell'industria n° 32 per l'esame di guida alla motorizazzione civile portare tessera d'identita e foglio rosa e biro il giorno 15-2-2006 l'orario te lo diranno perche non me l'anno detto
[1 errore. E ora guide!]

E’ morta

in una notte di due estati fa
è morta ancora
nell’appestato silenzio di quel corridoio antico
e poi tante altre volte
– sta morendo –
nei sorrisi che dimentico,
nell’affetto
trascurato
nella goccia sola ch’è schiantata assordante
e io
l’ho confusa con la pioggia
(perché tanto, le gocce
sono tutte uguali)

Non so più
come ingenue ridono le attese e si tormentano
né sento quel rimescolarsi caldo e grato
per solo una parola
(Ma nemmeno si cade strangolati 
da una delusione
e non si affonda soffocando
in qualche densa nostalgia)  

Eppure, non voglio
sbiadire
nell’abitudine

Bisognerà innamorarsi di qualcosa

Arca – II parte

– Tu e la Vero andate lì alle calotte; Vero, spiegale come fare.
Abbiamo raggiunto i lavoratori nel capannone; era zeppo di scatoloni, tubi, carrelli elevatori e colorato disordine. Gli operai gironzolavano attorno ai quattro lunghi tavoli centrali; mi sono piazzata in quello più vicino, dove un apposito contenitore riversava vagonate di pezzi plasticosi da assemblare. La mia compagna ne sapeva meno di me, così ci siamo rigirate fra le mani i componenti per un po’, finché non è arrivata Maria Rosa a elargirci sommarie spiegazioni – nonché a iniziare il racconto della sua biografia.
Mi stavo applicando alle calotte, quando un ragazzo barcollante è venuto a svuotare la casse dei pezzi completati, accanto a me. Poi s’è sistemato nella postazione accanto alla mia.
– C-c-ciao, sono Cristian!
Non so esattamente come si scriva; ma tanto per me non lo sapeva nemmeno lui, quindi non è un problema.
– E’ m..m..meglio che li metti così, guarda – m’ha detto, cominciando a tirar fuori i pezzi uguali, mettendoli in fila. – Ce…Ce li metti tutti e poi metti gli altri, così. Capito?
Ho visto una mano contratta montare i tutti secondi componenti sui primi messi in fila, quindi i terzi sui secondi, in stile catena di montaggio. Considerando che avevo passato i dieci minuti precedenti a completare ogni tubo uno per volta, m’è sembrato di essere un po’ stupida. E deve esser sembrato anche a lui.
– Ok, f..facciamo ch…che tu me li metti solo in fila e io li… li monto… capito?
Capito.

Mi sono un attimo spostata per avere più spazio di manovra; – Guarda che non mi davi fastidio, – m’ha detto, e mi ha messo i freni. Generalmente detesto queste cose, ma quella situazione non poteva rientrare in nessun generalmente.
– Lo… lo so fare per… perché v..vado all’aias a dare una mano ogni tanto! – mi ha spiegato. – Li por..porto in giro!
Aias, aias. L’avevo già sentito, questo nome. Aah, gli spastici. Sì, lui è spastico, quindi va all’aias. ’Spetta, però, a dare una mano? Ma se lui è spastico, gli altri dovrebbero dare una mano a lui e non… In questa conversazione c’è qualcosa di ribaltato. Mi sto perdendo.
– Tu ci…ci vai all’aias? – m’ha chiesto, vagamente apprensivo. – Hai d…degli a…amici?
Lo sapevo. C’è qualcosa di sempre più ribaltato. Non era lui a dovermi fare queste domande.
– Ehm, no, all’aias no. Però esco spesso con gli amici di scuola.
– Scuola? V..vai a scuola?
– Sì, faccio lo scientifico – gli ho risposto, con una specie di becero orgoglio. Mi venne in mente Nati due volte, dove l’autore descrive le madri di figli disabili che s’affannano a pubblicizzare le abilità residue dei pargoli, gareggiando a MioFiglioE’MenoDisabileDelTuo.
– Eh? – borbottò. Mi resi conto che non capiva.
– Beh… sì, si studia… tipo.. italiano, matematica… queste cose – ho spiegato. Lui mi ha quasi riso in faccia, tra il divertito e l’interdetto:
– Ma… non vai a lavorare?

Più tardi è passato un tipo dall’aria incazzata, a riempire gli scatoloni da cui prendevamo i componenti. Ha rovesciato la sua frana di affari di plastica, indirizzando a Cristian un gratuito “non rompere le palle”, ed è andato via. Cristian è rimasto zitto a fissare il vuoto, come raggelato. Poi ha abbassato la testa, e ha ripreso a montar calotte; ma ora si sbagliava spesso, così glieli aggiustavo di nascosto.
Rapidamente riempivamo casse di pezzi completati, e ho cominciato a chiedermi quanti diavolo di impianti di irrigazione esistano al mondo. Quei cinque o sei dipendenti trasognati – che lavoravano con la musica accesa a sottofondo, e potevano chiacchierare o fermarsi quando volevano senza essere redarguiti – stavano otto ore al giorno a fare la stessa identica, stupida cosa, producendo un’infinità di piccoli tubi per irrigatori, che poi vendevano sul serio.
Io, tempo un’ora e mezza mi sentivo già profondamente partecipe dello scontento degli operai ottocenteschi, sfruttati dodici ore al giorno in catena di montaggio. Che gioventù smidollata.
– E io sto…sto qui da stamattina eh! – ha sorriso lui, però non sembrava tanto dispiaciuto. Stefanino dice che quella è l’unica azienda in cui, quando si chiude, i lavoratori piangono.

Poco prima delle cinque è arrivato un omone allegro a diffondere nel capannone il suo potente accento toscano. Ha salutato un po’ tutti, Firenze, scherzando qua e là con noi e con gli operai; poi li ha raccattati sul suo furgone, per riportarli chi a casa, chi in qualche comunità o ospedale.
I miei compari andavano verso l’autobus, io aspettavo mio padre, in ritardo come al solito. Sono rimasta a gironzolare per la fabbrica vuota, accorgendomi di qualche dettaglio che m’ero persa. La parete in fondo era ricoperta delle foto di tutti quelli che c’erano passati – chissà, forse mancava quella del tizio che prende le sue foto e le strappa. Vicino all’entrata c’era un angolino con altre foto, il vecchio Papa, un ripiano con due statuette africane e delle piccole pietre in fila, a formare una strada. In alto, sul soffitto, qualcuno aveva dipinto una specie di grosso affresco a tema biblico. Ora non ricordo bene cosa fosse. Forse, un’arca di Noè.

Arca – I parte

– Ma è questo il posto?
– Beh, credo di sì… è un’azienda…
…Perciò doveva essere normale parcheggiare in uno sterrato pozzangheroso, tra furgoni, casse e rotoli di filo elettrico. Un giovane in tuta è uscito da una specie di serranda aperta, ci ha guardati un attimo, poi s’è chinato sul suo lavoro, ignorandoci.
– Beh, suoniamo?
Al campanello non rispondeva nessuno. Dalla porta aperta sono venute fuori una bionda in camice bianco e una ragazza non più alta di un metro e mezzo, vagamente deforme – allora no, mi son detta, non ho sbagliato posto. Mio padre ha continuato a guardarsi attorno per un po’, poco convinto. Era assolutamente buffo e fuori luogo, un barbuto omino nero con cravatta e cappotto, sperso davanti a un capannone, a guardarsi intorno con aria smarrita. Dicono che gli uomini non vogliano chiedere informazioni a costo di perdersi nella tundra, perché è poco dignitoso per un maschio-dominante-predatore. Lui è meno virile di un dodicenne, ma i retaggi animaleschi li ha ancora tutti. 
– Ehi! Scusate, sono arrivati dei ragazzi, qui, per caso? – ho domandato, accennando alla bionda; ché l’altra non sapevo se capiva. Certo, anch’io ho i pregiudizi di tutti, che credete. Quella mi ha guardato stringendo gli occhi.
– %”&£@#* ?
– …EH? 
Ok, l’ho beccata straniera. Forse capiva meglio l’altra. Per fortuna, nel frattempo era uscito anche un nero riccioluto, più ferrato con l’italiano. M’ha detto che erano già dentro, e mi ha dato una mano a entrare. 
Ho intravisto il naso paterno affacciarsi dalla porta blaterando di venirmi a prendere; dopodiché mi sono tuffata anima e corpo in quel pianeta altro.

Stavano in maggior parte seduti al tavolone della cucina; qualcuno girovagava, altri affondavano nel divano; tutti si chiacchierava rumoreggiando un bel po’; ogni tanto una risata, una pacca sulla spalla. Pareva una festa. Alcuni di noi, che come me non c’erano mai stati, rimanevano da parte, restii a gettarsi nel mucchio di quell’umanità fuori dagli schemi. Io, non so perché, ma m’è piaciuto subito. Beh, quasi.
– Ciaaaao! – ha cantilenato una signora seduta vicino a me, in un tono strano; poi s’è voltata sulla sedia per porgermi la mano, con un sorriso storto. Gliel’ho stretta.
– Vieni anche tu a lavorare qui? – ha chiesto entusiasta.
Mi veniva da ridere; appena entrata m’avevano subito scambiato per una di loro, così, perché abbiamo scritte in faccia le nostre diversità. In qualche modo, per loro anch’io stavo da quell’altra parte.
– Ehm… no, cioè… beh, non mettiamo limiti alla provvidenza, chissà un giorno…!
Dai, se fallisco come letterata, un posto in una comunità per outcasts of society lo trovo.
Subito è venuto a salutarmi un ragazzone enorme, con le sopracciglia unite e la bocca semiaperta. Si è chinato dai suoi sette o otto metri per darmi due lentissimi bacetti sulle guance e dirmi un nome che purtroppo ho dimenticato. Dopodiché devo aver stretto qualche altra mano che non ricordo.
Un tizio basso e tozzo stava seduto in poltrona con un’espressione truce da avanzo di galera, senza dire una parola per tutto il tempo. L’ho osservato, ché pareva un po’ mio zio. A capotavola, un ragazzo alla Forrest Gump sfilava un coltello dalle mani del suo vicino spastico, redarguendolo. Intanto una zelante signora trottava avanti e indietro, emanando energia e parole a macchinetta; più tardi si sarebbe messa a dar lo straccio, per poi andarsene parlando da sola.
Di noialtri, qualcuno era frequentatore abituale e sapeva come muoversi. Giacomo si dondolava sulla sedia, mezzo abbracciato a uno dei dipendenti ch’era affetto da qualche sfiga imprecisata, e ci scherzava a gran voce. E’ una benedizione sociale, ’sto ragazzo; ti fa amicizia con niente, ha già tentato di ribaltarmi un paio di volte. Studia da educatore professionale, e sarà il suo giusto mestiere, io credo.
Il chitarrista gli stava seduto accanto, con un’espressione tra l’ebete e il vuoto. Mischino, magari è intelligente, ma bisogna che si sgaggi un po’; finché non parla, continuerò a credere che non abbia nulla da dire. 
Buffo, qualcuno potrebbe aver pensato lo stesso di me, a volte.

Ad un certo punto i dipendenti si sono alzati tutti, uscendo dalla cucina; fine della pausa, immagino. Stefanino l’educatore ha colto l’occasione per riunirci attorno al tavolo e raccontarci qualcosa di quello zoo meravigliosamente assurdo. 
Ho sentito storie disastrate, di quelle che sai che esistono ma finché non le vedi restano dietro la tv, dietro un imprecisato Male Nel Mondo. Poi quando le tocchi, le abbracci, ti c’incazzi dentro, acquistano un sapore amaro che se ne fotte della teodicea.
– Una cosa di cui ti rendi conto lavorando qui, – ha detto Stefanino, – è che piove sempre sul bagnato. E’ incredibile quanto certe persone raccolgano su di sé un insieme di disgrazie che si accumulano inesorabilmente. –
Una ragazza era stata mollata dal suo tipo, così, disperata, si è sparata in testa. Solo che la pistola è scivolata, ferendola soltanto; ora le manca un pezzo di cervello, non muove bene la parte sinistra del corpo, parla male e sragiona.
Un altro si innamora di dieci ragazze in una giornata; grida i suoi sentimenti e scrive cartelli a tutto spiano. Una volta s’innamorò di una musulmana della comunità, la quale avvertì il padre, e volarono minacce di morte.
Sul muro della cucina c’era, appeso, un cartellone natalizio, dove ognuno aveva lasciato una frase, un pensiero. Qualcuno aveva scritto: non credo al Natale. E’ lo stesso che, quando cercano di attaccare la sua foto fra le altre, la prende e la strappa. Anche detto Pessimista Cosmico.
– Qui la gente che arriva ne ha subite tante che, spesso, non s’azzarda a fidarsi degli altri. Così, ogni minimo segno di perplessità da parte nostra viene percepito come un tradimento, ed è difficilissimo creare rapporti. Un conto sono i semplici, vedete la Maria Rosa, spazza e chiacchiera in continuazione, ma alla fine che puoi farci, solo volergli bene. Gli altri invece ti fanno incazzare, perché sai che “potrebbero”; sono normali, loro, perciò provi a parlargli e aprire un dialogo, a dargli l’occasione di cambiare, ma tanto questi non ti ascoltano. E allora che fai, pure loro, tocca volergli bene e basta.