Monthly Archives: Dicembre 2006

Noi occidentali non c’abbiamo proprio un cazzo da fare

Da un paio di giorni vivo in Afghanistan. Sono arrivata in ritardo a una festa dall’Ele perché quell’afghano emigrato in America doveva sposarsi. Stamattina mi sono svegliata alle nove e mezza, ma non sono riuscita a far colazione perché scaldare il latte mi avrebbe rubato troppo tempo – dovevo assolutamente sapere cosa voleva il vecchio Rahim Kahn. Dopo vent’anni all’estero sono tornata in una Kabul distrutta, senza più ricordi da riconoscere, trovando la mia casa ormai in rovina e occupata da altri. Non si fanno più tornei di aquiloni, in città.
A mezzogiorno mi sono resa conto che se non avessi riempito il buco nello stomaco sarei svenuta, così a malincuore ho raggiunto la cucina. Seduto al tavolo c’era un bambino dal viso tondo, i cui occhi a mandorla avevano visto la nefandezza umana in tutte le declinazioni possibili. Dal corridoio ho visto affacciarsi un talebano barbuto; lanciava sguardi minacciosi verso un uomo massacrato dalle botte e dal senso di colpa, che piangeva lì appoggiato sulla lavatrice. Non avrebbe più potuto chiedere perdono al suo vecchio amico d’infanzia, perché questi era stato ucciso con un colpo alla nuca.
Versando il latte nella tazza, ho aperto il Carlino trovato sul tavolo. Titolo a otto colonne: "Ma quali tacchi a spillo, sono un pedagogo". La lettera dell’insegnante che entrò in classe vestito da donna.

Ma vaffanculo.

[Comunque quel romanzo è una droga]

La merda e Dio

"Quando ero piccolo e sfogliavo il Vecchio Testamento raccontato ai bambini e illustrato con le incisioni di Gustave Doré, vi vedevo il Signore Iddio su una nuvola. Era un vecchio, con gli occhi, il naso e una lunga barba, e io mi dicevo che se aveva la bocca doveva anche mangiare. E se mangiava, doveva anche avere gli intestini. Quell’idea mi faceva venire subito i brividi perché io, pur appartenendo ad una famiglia più o meno atea, sentivo che l’idea degli intestini di Dio era una bestemmia.
Senza alcuna preparazione teologica, spontaneamente, capivo quindi già da bambino l’incompatibilità tra la merda e Dio e, di conseguenza, anche la discutibilità della tesi fondamentale dell’antropologia cristiana secondo la quale l’uomo è stato creato sa immagine e somiglianza di Dio. O l’uno o l’altro: o l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio e allora Dio ha gli intestini, oppure Dio non ha intestini e l’uomo non gli assomiglia.
Gli antichi gnostici lo sentivano con la stessa chiarezza con cui lo sentivo io a cinque anni. Per risolvere questo problema maledetto, Valentino, grande maestro della Gnosi del secondo secolo, sosteneva che Gesù "mangiava, beveva, ma non defecava". La merda è un problema teologico più arduo del problema del male. Dio ha dato all’uomo la libertà e quindi, in fin dei conti, possiamo ammettere che egli non sia responsabile dei crimini perpetrati dall’umanità. Ma la responsabilità della merda pesa interamente su colui che ha creato l’uomo."

(M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere)

[No, non fatevi un’idea sbagliata di questo libro. Le citazioni fuori contesto possono trasformare un grande romanzo in una gag della Littizzetto. Appena finirò di leggerlo, se ne avrò voglia scriverò qualcosa di più sensato e citerò brani che gli rendono giustizia. Oggi mi piaceva una certa leggerezza dissacrante.
(A guardar bene, in realtà, anche questo brano gli rende perfettamente giustizia. Due capitoli s’intitolano
L’anima e il corpo. Il libro intero trasuda fisicità e insieme sviluppa un’introspezione psicologica quasi pedante da quant’è sottile. Ma questa è un’altra storia)]

C’era un pastore a braccia conserte

[Il presepe non l’ho fatto io, ci pensa papà. Così, ho pensato mi sarei divertita di più a scriverne uno un po’ eretico]

C’era un pastore a braccia conserte, quella notte, stava un po’ distante e guardava di sbieco la folla laggiù, solo un’occhiata ogni tanto, per non rischiare di credere. Sapeva che, se si fosse avvicinato, avrebbe creduto; gli era successo tante volte. Il pastore aveva bisogno di una speranza, e credeva sempre a chi gliene offriva una.
Ma si sentiva un bambino. Non si può trasformare un bisogno in verità, solo perché ci piacerebbe: aveva deciso che, ormai, a lui importava la verità. Perciò non voleva avvicinarsi e cadere di nuovo in trappola; eppure non riusciva nemmeno ad andarsene. Era bello sentire il brusìo e le domande, partecipare alla vibrazione collettiva di un’attesa, lasciarsi stuzzicare dall’incertezza.
– …città di Davide un salvatore, che è il cristo signore…
– …un angelo… gloria a Dio nell’alto…
Minchiate. Ecco, il pastore captava le frasi che sfuggivano ogni tanto alla confusione, e pensava che in un’ora i suoi compaesani erano già riusciti a creare un mito. Questo gli dava fastidio, e gli faceva venir voglia di andarsene del tutto: c’era già un muro di schiene, di racconti e certezze presuntuose tra lui e quella cosa in fondo, che non riusciva a vedere. Nessuno, gli pareva, stava con lui a lasciarsi coccolare da un prudente dubbio, ad aspettare di capire: loro avevano visto l’angelo, certo, la luce, la musica e magari un asino in volo acrobatico sul deserto; allora erano accorsi senza indugio.
Lui invece era già lì, era lì da tutta la notte, e non aveva visto un bel niente.

Sapeva che quei sempliciotti erano fantasiosi; bastava poco, uno stupido evento qualunque un po’ diverso dalla prevedibile routine, che loro s’inventavano qualche storia per rompere la noia. Come passare le nottate attorno al fuoco, altrimenti?
Fece due passi lì attorno, per sgranchirsi, e diede un calcio a una brace spenta rimasta da un vecchio falò. Sorrise tra sé, ripensando che qualche giorno prima aveva fatto lo stesso con un maledetto pezzo di carbone che però era ancora acceso, così s’era pure scottato. Solo che l’aveva lanciato contro degli arbusti secchi; erano le due del pomeriggio, c’era il sole a picco, e quelli lentamente presero fuoco. Mentre si allontanava, aveva sentito odore di bruciato e si era voltato indietro; allora aveva visto dei ragazzini che bivaccavano lì attorno correre via spaventati, gridando qualcosa a proposito di Dio, Mosè e un cespuglio incendiato.
Il pastore ridacchiò al ricordo e si sdraiò, le mani dietro la nuca – tanto, non c’era modo di vedere oltre la folla che lo divideva da quel qualcosa laggiù. Non era molto alto, lui. Preferiva stendersi a guardare quel profondissimo cielo di notte, di fronte al quale non soltanto lui doveva sentirsi piccolo, ma anche quei creduloni presuntuosi che si accalcavano di là. Non c’è bisogno di inventare angeli per stupirsi di qualcosa, pensò. Basterebbe chiedersi cosa diavolo sono quei puntini bianchi che illuminano la notte, per avere domande sufficienti a impiegare una vita intera.
Era incuriosito dal cielo notturno. Una volta aveva incontrato un mercante orientale che gli aveva spiegato diverse cose sui movimenti delle stelle. Aveva anche previsto per quel periodo il passaggio di una stella speciale, con una specie di piccola coda luminosa; diceva che non era la prima volta e che sarebbe successo ancora. Il pastore da qualche giorno la stava cercando nel cielo; non sapeva bene dove guardare, né a che ora; però aspettava e cercava.

– Una coperta, una coperta per una donna…
– …bambino…
D’un trattò sentì passare tra la gente una fibrillazione nuova; si passavano parola chiedendo aiuto per qualcuno. Una donna, dicevano? Il pastore si alzò e s’avvicinò a un giovane che correva da una persona all’altra.
– Che succede?
– Avete un panno, un mantello, c’è una donna che ha partorito e serve qualcosa per coprirli…
– Ce l’ho io, arrivo – rispose al giovane, e scuotendo la testa si diresse verso il suo giaciglio. Dunque era così, semplicemente! Altro che angeli; erano accorsi tutti solo per aiutare una donna a partorire! Il pastore sospirò, chiedendosi chi mai avesse sfruttato l’occasione per spargere le solite leggende… si approfitta perfino di un bimbo che nasce per stare un po’ al centro dell’attenzione!
Prese la coperta e tentò di farsi strada tra le persone e gli animali che s’erano portate dietro. Notò che molti guardavano nella stessa direzione, indicavano, parlottavano fra loro. Mentre avanzava si sentì strattonare per un braccio; un vecchio l’aveva afferrato e lo fissava con sguardo vitreo, rantolando quel bambino, quel bambino…; dovette scrollarselo di dosso a forza per poter andare avanti. Giunto verso le prime file, inciampò in un uomo inginocchiato, e imprecò gridandogli che poteva anche darsi da fare, invece di restarsene ebete a ostruire il passaggio. Scavalcàti anche gli ultimi che s’affollavano all’entrata della stalla, si scontrò con la mano tesa di un uomo.
– Dà a me, grazie – disse quello, senza guardarlo. Il pastore lo osservò un momento: era sudato nonostante il freddo, aveva occhiaie profonde, nell’altra mano teneva un secchio d’acqua e sulla spalla un panno sporco. Dava occhiate rapide a un angolo appartato della mangiatoia; da là venivano un pianto di neonato e alcune voci femminili. Il nostro tentò di sporgersi oltre la spalla che gli si parava davanti, ma non riuscì a vedere nulla.
– Dà a me – ripeté allora l’uomo, con voce ferma. Stavolta lo guardò negli occhi. Dietro di lui comparivano e scomparivano un paio di donne che armeggiavano chine su qualcosa. Un altro tizio stava spingendo via un curioso troppo invadente.

Il pastore gli porse la coperta, senza smettere di guardarsi attorno.
All’improvviso si ricordò che aveva deciso di non avvicinarsi, e ne fu spaventato. Forse ora gli sarebbe accaduto di credere. Sarebbe diventato ebete come quel rincoglionito che stava in ginocchio davanti a lui, e avrebbe iniziato a ignorare il buon senso per rincorrere favole. Avrebbe afferrato la gente per un braccio fissandola con aria spiritata e profetando fesserie; avrebbe cominciato ad avere paura di tutto, perché in ogni roveto incendiato per caso poteva nascondersi Dio.
Fece qualche passo indietro, mescolandosi con la folla. Lo raggiungevano ancora spezzoni di racconti:
– …non temete…
– …annunzio una grande gioia.
Pensò che sarebbe stato bello non temere. A volte, mentre si lasciava risucchiare dal cielo profondissimo di una notte limpida, gli capitava come d’accorgersi di esistere, ma non come l’erba o le pecore che nascono crescono muoiono e non rimane niente; gli pareva d’esistere più come le stelle, forse ancora meglio delle stelle, un’esistenza che dura da sempre e per sempre per qualche ragione incomprensibile e lontana, una ragione immensa di cui lui era parte in qualche modo, ma che di lui era più grande ancora, perché non la comprendeva.
Il pastore non avrebbe saputo spiegare a nessuno questa sensazione. Sapeva solo di perdersi per un attimo immenso in una specie di profondo vuoto, come cadendo all’infinito in un pozzo senza appigli.
Tutto ciò non gli faceva esattamente paura – si sentiva comunque grande e potente – ma nemmeno lo rincuorava. Di certo non era una grande gioia, piuttosto un’inquietudine tormentata.
La gente attorno a lui, invece, sperava. Non sapeva ancora cosa sperare esattamente; forse sperava cose sbagliate, però si aspettava una grande gioia. Se l’aspettava da un bambino di cui s’era sentito solo il pianto, nato in una notte qualsiasi lì quel buco di stalla, con un padre scontroso e ammaccato a difenderlo sulla soglia, e qualche decina di pastori e curiosi accorsi senza apparente ragione.

Anche il pastore per un momento ebbe voglia di sperare. Di gettarsi insensatamente in quella scommessa ingenua, nell’illusione collettiva; così, senza un motivo particolare, solo per lasciarsi andare e commuoversi, solo perché ne era attratto come da un innamoramento.
Ma ne aveva paura, perché sapeva che l’amore – anche questo tipo di amore – rende sempre un po’ ciechi; fa vedere, della realtà, solo quel che conferma le speranze e le idealizzazioni. Lui, invece, aveva bisogno della verità.

Si allontanò lentamente, dando un’ultima occhiata a quella mangiatoia e alla gente che si tendeva per vedere. Aggirata la folla, gli si allargò il cielo davanti e gli cadde lo sguardo su una stella diversa, proprio come gliel’aveva descritta il mercante. Sorrise di averla trovata così, per caso. Pensò che i creduloni di là le avrebbero affibbiato chissà quale senso particolare; un segno, avrebbero detto.
Invece lui sapeva che c’era la stella perché era previsto, era già accaduto e sarebbe accaduto ancora. Si sdraiò per terra a guardarla, dicendosi che, anche così, di quel loro esistere non aveva capito granché.

Discorsi interrotti

Un poco più sincera, stavolta, sarà che quella specie di stanca tristezza toglie la voglia d’industriarsi a tener spettacoli – allora da sentieri profondi si fa strada una voce diversa, un tono serio e nuovo, cui non importa di pubblicizzare altro se non la verità.
Ma, ancora, riusciamo soltanto ad approssimarla.

La verità ha bisogno di due sedie, una breve eternità senza scadenze, la rara coincidenza dell’umore giusto, e il coraggio di restarsene in silenzio a proprio agio, almeno il tempo necessario ad abbozzare un pensiero, cancellarlo e ricorreggerlo finché sembri il più possibile simile a se stesso.

Invece, rincorriamo scampoli di discorsi interrotti.
(E non saranno soltanto le parole
a frammentarsi)

Il laicato pavido

Ho trovato per caso, su internet, questo articolo. Era pubblicato da un “caporedattore dimissionario”, Marco Damilano, sull’ultimo numero di un settimanale dell’Azione Cattolica. Ultimo non nel senso di recente: ultimo perché il giornale, come ben spiegato qui, era stato fatto chiudere, in seguito a diversi articoli giudicati… poco ortodossi.

Ora, la storia del giornale non la so, non la giudico e non m’importa. M’importa quel che ha il coraggio di scrivere questo tale.

“….C’è una Chiesa che cammina sulla strada di Emmaus, che ammette il proprio smarrimento, che chiede perdono e si affida alla parola del Signore e non alle garanzie degli uomini, che parla ai giovani con il senso della tradizione e la fiducia nel domani. Ma resistono abitudini consolidate, figlie dell’incertezza, di «correttezze etichettate di ortodossia così staccate dal vivere degli uomini da diventare inutili e buffe, fedi così chiuse da temere che mai potranno aprirsi a un panorama reale», scriveva ancora Rossi.

Anche il nostro rischia di diventare un associazionismo estenuato, ripetitivo, chiuso in difesa di confini già scavalcati dagli eventi. Sì, c’è un laicato pavido che chiama gli arretramenti vittorie, i cedimenti resistenza, il non prendere posizione sobrietà, la chiusura speranza. C’è un modo di fare chiesa incapace di uscire dal gergo, di parlare alle ansie e ai dubbi di fede della gente semplice, che produce discorsi disincarnati, buoni per tutte le epoche e tutte le stagioni.

Parole retoriche in cui manca la storia. Il corpo. La vita. Viviamo, insomma, i giorni dell’impotenza. Un giornale, anche il giornale dell’Azione cattolica, non può essere separato dal tempo, non può astenersi dal riflettere quello che accade, che sia bello, brutto, rassicurante, scomodo. Un giornale, come si leggeva sulla maglietta di James, ragazzone australiano incontrato sotto il palco di Tor Vergata, non è una favola, è fuoco. Tra limiti, contraddizioni, errori e ingenuità abbiamo tentato di accendere qualche focolare. Sappiamo che non sarà spento”

……

Vorrei che si avesse il coraggio di gridare un cambiamento. Senza chinare la testa sotto un incerto senso di colpa, senza mettere le mani avanti con l’abituale ”sono io che non capisco, devo ancora imparare”, senza partire da presupposti uguali alle conclusioni (”è vero perché ti affidi alla Chiesa, ti affidi alla Chiesa perché è vero”) seguendo procedimenti illogici – e non si tratta della meravigliosa illogicità di questa nebbiolina, né dell’umile coraggio di arrendere la ragione di fronte a un’intuizione d’infinito.
E’ un’illogicità innanzitutto ipocrita, perché si spaccia per razionalità: si sforza di trovare giustificazioni arrampicate sugli specchi che nemmeno Anselmo d’Aosta; tutto è volto alla dimostrazione di una verità già data, e non alla sua libera ricerca. Ma è anche violenta, perché i suoi ghirigori accademici s’insinuano nelle vite e nelle coscienze delle persone che tentano di affidarsi. Per carità, ho frequentato abbastanza gruppi cattolici per sapere che la gente non è idiota e sa discutere, dubitare, contestare – nessuno ci torturerà per questo. Nessuno, nemmeno, ci caccerà dalla Chiesa, che come si sa è un po’ una prostituta: va con tutti ed è il suo bello. Mi riferisco a una violenza più sottile, quella di chi tollera eppure punta il dito dall’alto, di chi pur accettando di costruire un rapporto con te, dà per scontato che ad adattarti sarai soltanto tu.

Non è vero che i cattolici non sono liberi: possono entrare e uscire dal gregge a piacimento, possono pensare quel che preferiscono e dirlo forte quando vogliono – se non lo fanno, se la prendano con se stessi. Ma è una libertà da cui la Chiesa nel suo insieme, riguardo a determinate questioni, non riesce a trarre vantaggi: ogni critica è sbagliata in partenza e non può mai diventare proposta. Non esiste un dibattito costruttivo: al massimo si esprimono privatamente opinioni rassegnate, sapendo magari di essere in buona compagnia tra i dissenzienti, ma senza poter sperare in nient’altro che in un’omelia già sentita, tendente a dimostrare perché ha sempre ragione chi deve averla. E non soltanto quando si parla di dogmi (nonostante si potrebbe discutere pure su una manciata di invenzioni mariane), ma anche se si pesca qualcosa dall’intoccabile, millenario calderone della Tradizione, con quella T maiuscolissima su cui spesso viene crocifisso il buon senso.

Non c’è motivo per non cambiare. E’ tempo di scoprire qualcosa su noi come chiesa che non conoscevamo prima (Arcivescovo di Canterbury, parlando dell’ordinazione di donne-vescovo)

Si sentirà mai una frase del genere da un vescovo cattolico? Quando la nostra Chiesa avrà l’umiltà di cercare qualcosa che prima non conosceva?
Per ora il cambiamento – che pure in parte è avvenuto, troppi anni fa perché potessi godermelo – rimane non accettabile su molte questioni: la Verità è una e immutabile…  

“C’è, nel mondo di oggi, un pullulare di “verità”, verità nobili, ma non definitive, come quelle della scienza, “verità” meno nobili, come quelle del buon senso, come quelle di associazioni e circoli, come quelle di chiese e chiesuole, che dobbiamo ammettere come tutte possibili, come tutte contenenti una possibilità di vero, e verso cui dobbiamo avere un atteggiamento di rispetto e di attesa, un atteggiamento laico; in questo mondo la Chiesa deve farsi piccola tra i piccoli, sfidare con le sue verità le altre verità, mettersi al confronto con esse. D’altra parte il dire, come ha detto il Concilio Vaticano II, che lo spirito soffia dove vuole e che tutti, qualunque cosa credano, sono accettati, salvi, da Dio, vuole dire proprio questo, che occorre vedere Dio in ogni uomo che crede e che opera, pacificamente”
(Il disastro mondo, di Francesco Golzio)

Già, la Verità. Può anche darsi che sia una, e che non cambi. Ma noi, che la cerchiamo e ne scorgiamo un pezzetto per volta – aggiungendo magari qualche pezzo nostro, giusto per costruirci un rassicurante sistema di regole – siamo e siamo stati tanti. Siamo anche cambiati. E come noi, oggi, potremmo sbagliarci a intuire la Verità, così possono essersi sbagliati loro, chiusi in vecchie paure, legati a pregiudizi. Ne avremo senz’altro anche noi; ma questa è solo una ragione in più per interrogarsi onestamente sui fatti, sulle realtà vissute dalle persone e non quelle incarcerate negli ipse dixit – ché mentre gli ipsi dicono al perfetto, qui c’è un’umanità intera che s’arrabatta col presente.

Pubblicità sensibile

La webmail di Gmail è corredata dalla cosiddetta “pubblicità sensibile”, ovvero: un qualche motore automatico simil-google ti sonda le email visualizzate e fa magicamente apparire lì accanto annunci attinenti all’argomento trattato. Per esempio, se scrivi a un’amica “allora hai trovato un albergo per Assisi?”, comparirà un link a una catena alberghiera del Trentino e un altro a un negozio di presepi new-age.
Tutto al servizio del consumatore.

Questa era pubblicità che appariva accanto a una lunga email riguardante Dio, la fede e argomenti affini.

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Ora io mi chiedo: ma che cazzo avevo scritto???

Il regalo più bello

Copertina di quaderno dal titolo: Storia di un amicizia

 

Ci aveva messo un po’ per completarlo; mi aveva chiesto anche delle foto, e non capivo bene perché. Poi mi ha detto che doveva darmelo in un momento tranquillo, senza nessuno fra i piedi. Così, in quelle ore buche prima di coro, mentre si chiacchierava nella sua classe con gli altri – perché io torno ancora a scuola, ogni settimana, per coro, teatr… no, per incontrare prof e amici – mi ha allungato un quaderno fatto in casa, rilegato coi laccetti.
[C’è stata una notte triste, anni luce fa, in cui da sotto le coperte m’accesi la lucetta e, preso un foglio, scribacchiai qualcosa. Prima abbozzai un disegno dei miei, soliti schizzi sbilenchi di scene impossibili; poi cominciai a scrivere.
Quel foglio dev’essere andato perduto; o forse no, sta ancora sotto una pila di roba che non avrò mai il coraggio di buttare. (E’ un modo di perdere le cose senza rimpianti: anche se non la ripescherai mai, sai che quella cosa esiste ancora, e, finché resta lì sepolta, ancora ti appartiene).
Mi ricordo come cominciava. Avevo scritto che mi sarebbe piaciuto, un giorno, ricevere una lettera. Una di quelle semplici e affettuose, che parlano senza vergogna di cose comuni e infantili come l’amicizia…
]

Fosse successo allora, sarebbe bastato a fissarmi in faccia per settimane un sorrisone stupito – perché c’era da stupirsi che qualcuno mi s’affezionasse un poco. Adesso che son cose felicemente normali, resto contenta lo stesso, in maniera diversa.
Anche perché, in ogni caso, nessuno aveva mai scelto un modo così simile al mio – o a quello che ho sempre aspettato – per dirmi che mi vuole bene.

 

ultima pagina del quaderno, con scritto: questo libro è bellissimo, aiutami a fare in modo che le sue pagine non finiscano mai

Cos’è?

Einaudi è bello. Cioè, non lui, ch’è un omuncolo pelato, immobile al pianoforte nonché vagamente borioso – esce e rientra tre o quattro volte per prendersi gli applausi; intendo i suoi pezzi.
Insomma, alcuni. Ho avuto qualche istinto omicida nei confronti del berlinese seduto a quel computer-consolle-mixer sul palco, che sparava suoni elettronici ripetitivi e ossessionanti come accompagnamento – come se non fosse già abbastanza ripetitivo il Ludovico, suonicchiando cosette che so strimpellare perfino io, il che è tutto dire. Si stesse zitto, il ragazzetto berlinese elettronico, e mi lasciasse sentire gli strumenti; se il pianofortino restava spesso mono-nota, almeno gli archi avevano un loro perché.  
Ovvio, tutto molto melodico-banale-commerciale-colonnasonorico, ma essere ignoranti ha il privilegio di non sentirsi obbligati a tirarsela, e di poter ascoltare qualcosa di plebeo senza dover ostentare sprezzante schifo.

 
Ludovico Einaudi, Divenire

Poi siamo uscite, io e l’altra appassionata di pianisti d’accatto, girando intorno alle case di notte. Chiede dell’incontro in cui non c’era, le spiego che soliti noti come me si sono infervorati col don sulle solite cose – la Chiesa, ma chi mi garantisce, chi ha il diritto di decidere, che c’entra il papa; e la Verità in quale tasca la trovo?
Si siede sul marciapiede, aspettando mio padre. I soliti noti, ride, beh tu i tuoi dubbi li dici, guarda che fai bene.

Ma tu – eccola che arriva, la domanda difficile, è qui sospesa nella pausa che sceglie come chiedere – tu… cioè… vai a messa… insomma…?
Buffo come sia sempre troppo imbarazzante chiedere soltanto: tu credi?
[E voi chi dite che io sia?]

Allora ho raccattato in fretta le parole, cercandole già mentre le dicevo – come si fa quando il momento giusto rischia di scappare, distratto da un’auto un piccione o un graffito strano sulla casa accanto – ma si sono accatastate imprecise e un po’ gridate, approssimando una risposta che non sapevo. E’ che si ostinano a voler spiegare tutto, a me andrebbe bene credere che c’è qualcosa, tanto non potrai mai sapere… e invece quelli dicono No! Tu devi credere a questo e a quest’altro inutile dettaglio…

[Lui aveva più tempo per scegliere le parole:

Ma Dio cos’è?

E la creatura
atterrita
sbarra gli occhi
e accoglie
gocciole di stelle
e la pianura muta

E si sente
riavere]

Ma diventerò così anch’io?

Tratto dal blog degli (alcuni) studenti di lettere, "Le Palle di Mozart"

Ritrovato in un antro nascosto di un codice della biblioteca Vaticana, ecco a voi, tradotto da Alfonso Traina, il tredicesimo libro dei dialoghi di Seneca. Purtroppo ci è giunto in forma mutila, ma quello che ci rimane è più che sufficiente per capire ancora più nel profondo l’animo del grande filosofo.

DE SCROCCO

I

1 A te, o Lucilio, migliore tra gli uomini, voglio insegnare l’arte del vivere approfittando degli altri. Infatti sempre ci affanniamo per portare a casa il danaro, e poi ci roviniamo la vita per conservarlo, ma vi è una libertà migliore di quella di cui gode colui il quale, libero da apprensioni, campa allegramente coi soldi degli altri? Questo, Lucilio, devi tenere bene a mente: libero è colui che scrocca. Egli non libera soltanto se stesso, ma anche coloro di cui s’approfitta, facendo apparire loro il denaro meno importante e più liberalmente spendibile. 2 Ogni giorno è un giorno strappato alla morte, e pertanto da vivere appieno: pensare ai propri soldi non fa altro che rovinarcelo. Come colui che, dopo una giornata passata nei campi a sudare viene chiamato alla battaglia, così ci comportiamo per accumulare una montagna di soldi. Ma quando li ha già un altro, a che serve averne anche noi? Compreresti mai un libro se lo possiede un tuo amico che te lo presterebbe sempre? Lasciamo che gli altri si dannino per la loro misera pensione: tu, o Lucilio, scrocca, scrocca sempre! Potrai innalzarti verso il cielo e osservare dall’alto il nostro mondo. Noterai così la sua infima piccolezza e dirai: “Perché sono stato così sciocco da conservare un mucchietto di monete che da qui non si vedrebbe nemmeno se avessi la vista di un’aquila? Quanto tempo ho perso per scavarmi un pozzo, quando potevo attingere l’acqua da quello del mio amico!” 3 Bisognerà chiedersi: cos’è importante? Importante, Lucilio, è essere libero dalle preoccupazioni per potersi dedicare alle arti liberali. Importante è non pensare al denaro, non pensare a come accumularne e a come non sperperarne. Cos’è importante? Importante è imparare ad approfittare al meglio del denaro, quello degli altri. Cos’è importante? Importante è disprezzare la ricchezza, vivere modestamente, non curarsi degli affari, ma convincere gli altri a farlo per poter aggrapparsi alla loro schiena. Cos’è Dio? Boh, che cacchio ne so, e comunque non c’entra nulla. Quello che è certo è che se Dio è quello che è, è perché è uno scroccone. E ricorda che tu, se lo vuoi, puoi diventare Dio!

II

1 Affinchè tutte queste parole abbiano per te un senso pratico, ti insegnerò alcuni stratagemmi che è bene osservare per scroccare ed avvicinarsi a Dio. Quando si va in vacanza, ha forse un senso portarsi venti tubetti di dentifricio? Quando si va alla taverna, fai in modo che uno solo abbia con sé i soldi, e fai in modo di non essere mai tu. Se si propone di fare alla romana, dopo che l’amico ha pagato, esibisci il biglietto del taglio più enorme che esista, in modo che nessuno abbia il resto da darti. Altrimenti, raccogli i soldi di tutti prima e bara di poco sul resto di ognuno: i resti di tutta la tua compagnia pagheranno anche per te, visto che nessuno fa mai lotte per pochi centesimi. Sii sempre l’ultimo a pagare, e se sei solo ricordati di questo: molte monete non vengono mai contate da una barista. Oppure, comincia a contarle appoggiandole sul bancone e sostieni che siano finite proprio ai tre quarti della somma intera: poi dovrai dire “altrimenti ho solo quelli”, e tirare fuori una banconota enorme. 2 Ricorda che le donne per natura mangiano di meno degli uomini: mediamente, ogni cinque donne si guadagna una pizza intera fatta coi loro avanzi. Ricorda che i grissini sono gratis, anche quelli degli altri tavoli. Ricorda che qualsiasi omaggio non deve essere mai rifiutato. 3 Se farai sempre così, riuscirai a risparmiare sempre. Ma ricorda di farlo senza che nessuno se ne accorga, perché ti prenderanno per avido. Come colui il quale getta lo scudo e scappa dalla battaglia, così tu avrai salva la pelle: scappando quando si prensentano i problemi veri: quando sarai elevato alle stelle vedrai che questi problemi non erano poi così grandi rispetto all’universo intero.

III

1 Fatti da mangiare, o Lucilio, e vedrai come sei bravo: ma sappi che stare ore ed ore a sfornellare è noioso, e tu lo sai già. Sposati, dunque, e fai fare tutto alla tua moglie. È lì apposta. Ma se non vuoi condivedere la rottura di balle per tutta l’esistenza con un altro essere che gira per casa, basterà scroccare: lo scrocco è la soluzione più semplice per tutto. A cena fatti invitare. A pranzo fatti ospitare. A merenda, fatti trovare sotto casa dell’amico. Mai nessuno nega un panino ad un amico. Poi, quando entri in casa, fai incetta di libri, suppellettili, cancelleria e fattele prestare dal tuo amico. Dì: “Te le renderò al più presto”. Tutti e due sapete che non sarà così. 2 Più tempo una cosa prestata passa nelle mani di un altro, più il proprietario si dimentica di averla avuta. Questo gioca tutto a tuo vantaggio, o Lucilio…

A questo punto il codice si interrompe. Alcune pagine sono state strappate. Secondo Dan Brown, che sta scrivendo il suo prossimo libro, “Il codice che io ci ho provato ma non l’ho mica capito”, sarebbe stato Leonardo ad usare quelle pagine per pulirsi il culo.

Mincio Attila Eugenio

http://palledimozart.splinder.com/post/9948012/Palle+di+Seneca

Splendido fallimento

regali

 

 

Naaa, non vale la pena andare a dormire. Tra un paio d’ore mi dovrei alzare per andare in trasferta con la squadra di basket, tanto vale fare il dritto e riposarsi in pullman.

E magari, alle tre di notte, ingannare l’attesa raccontandovi di una festa. Organizzata all’ultimo momento, sala affittata per un soffio, gente avvertita poco prima, eppure di certo la festa più popolata di sempre. Ma quanti amici hai?
Ac, coro, teatro, classe, imola, exquintaD, più un’infiltrato dall’uni. E’ una festa ecumenica – rido con Lucia – ac e ciellini insieme, senza dimenticare atei e indifferenti; coro e teatro vicini, invece che a farsi concorrenza sui venerdì.
Storie. Non eravamo insieme.

E’ stato un fallimento, perché una festa che comincia con un passaggio mancato e un telefono chiuso senza aspettare un ciao parte già male. E poi perché i gruppetti si son raccolti in cerchi senza intersezioni, mentre io rimbalzavo qua e là, assaggiando frammenti di discorsi non conclusi. C’è gente con cui ho scambiato appena due parole, compresi quelli che venivano da lontano e non vedevo da tempo; la mia classe quasi non l’ho vista, Luca sembrava tornasse invece non s’è presentato, Benna ha suonato solo per pochi a notte fonda, l’alcol è avanzato, Beppe è stato male.

Ma è stato uno splendido fallimento: non capita a tutti di lamentarsi perché si ha troppa gente con cui parlare. E anche scremando i conoscenti, quelli a cui ho poco da dire e quelli a cui direi tanto ma non ne avremo mai l’occasione in questa vita, restano certe persone importanti che bastano a scaldare la festa. Resta l’abbraccione dell’eli; resta mia figlia che mi chiede com’è andata, l’ac che abbozza un discorso scassone e mi porta un quaderno di citazioni da contraddire, l’uomo dai mille soprannomi che non ho ancora capito se si chiama davvero Stefano e che mi regala Chesterton, Lucia che se lo impezza, la Fra che sistema le candeline, Gianma and friends coi loro regali idioti (lo Svelto sarà indimenticabile), io che m’accorgo soltanto alle 2 che Luca non c’è – e questo è già un buon cambiamento, non m’ero mai scordata di aspettarlo. E poi la Vale con cui, chissàcomeeperché, m’incrocio appena ogni tanto per chiacchierate notturne; mi aspetta finché gli ultimi non se ne vanno – mi dà un passaggio e non riesce a far benzina e una puttana alle tre di notte ci dà una mano al distributore; la Vale con cui non so bene cos’ho in comune, di certo un blog e il nostro assurdo, inconcludente e meraviglioso scopo nella vita.