Monthly Archives: Dicembre 2009

Coriandoli

Forse la felicità è creare momenti di bellezza.

Non ho più sogni dirompenti, e non sono innamorata. Faccio sempre più fatica anche a innamorarmi, così scendo di livello, cerco passatempi nei bassifondi dei corpi e li trovo inaspettatamente così facili che mi hanno già annoiato prima di cominciare.

Gira allora sul palo la freccia della felicità, indicando altrove. Seguirne la direzione è affare da segugi dell’insignificante. La felicità non si presenta più col suo nome in caratteri enormi, come gli autogrill sull’autostrada con chilometri di anticipo. Si è cambiata i connotati di nascosto e mi sfida a riconoscerla.

In altre parole, da tempo non ho motivi particolari per essere (o sperarmi) felice – dove i motivi particolari sono quelli per cui non si dorme la notte, quelli che si raccontano agli amici e si proclamano in post celebrativi di vittorie esistenziali. E ho la netta premonizione che la tendenza sarà solo confermata dal procedere degli anni, tranne qualche interruzione.

Però ci sono i momenti di bellezza.
Naturalmente non parlo di estetica delle forme, ma del fascino delle situazioni. Quelle apparentemente banali, che accadono a tutti ma per qualcuno – solo per qualcuno – a un tratto erompono dal grigiore come coriandoli sull’asfalto. E sono quasi perfette – con giusto quell’utile quasi a garantirmi che siano reali – per la cura nei dettagli della scena, la precisione nell’incastro con un vecchio sentimento, o l’intonazione col cielo del giorno.

A volte non succede proprio nulla, è solo un modo diverso di sentirsi l’aria addosso uscendo di casa. Altre è un’ospite inattesa che piomba a cucinarti una pasta e una specie di affetto; altre ancora l’ironia commovente di un regalo creativo, che ha ancora attaccato alle pagine tutto il tempo impiegato a costruirlo; oppure una serata surreale a perdersi nella neve di periferia, ridendo di allegra disperazione.

Passare la vita a raccattare coriandoli così può sembrare deludente, in rapporto ai Grandi Scopi.
Almeno finché non si scopre che anche quelli, a guardarli da vicino, sono solo relitti – più presuntuosi – di un vecchio carnevale.

Tempus fugit.

Accidenti, me ne sono accorta adesso, pensando che anni fra tra dieci minuti avremmo adagiato un Gesù di plastica nel presepe.
Quest’anno, per la prima volta, papà non ha fatto il presepe.

E’ l’inizio della decadenza.

P.G.R.

Il 21 dicembre ho avuto veramente paura.

Non so, in effetti, come altro scriverlo. Probabilmente non voglio, qualunque descrizione non sarebbe abbastanza incisiva.
Poi l’ho già raccontato a tanti, per sfogarmi, e sento che quella paura perde uno strato di realtà ad ogni narrazione – come le parole, che a ripeterle in fretta perdono significato.

In qualche modo voglio salvaguardare quella paura – e specialmente la successiva improvvisa, profondissima consapevolezza di stare bene. E la sensazione di dover sfruttare a fondo questa inaspettata possibilità/grazia.
Sento che già rischia di sfuggirmi, fra le quotidiane, insulse delusioni. Sarebbe, invece, un ottimo promemoria da tener presente.

23

neve

sono i cm di neve che mi hanno accolto, stamattina, aprendo la porta sul giardino.
E’ la prima volta che ho un giardino su cui aprire una porta, appena alzata: direi che ha nevicato tanto proprio nell’anno giusto.

Un esame dato, una stanza con poche cose ma giuste Рuna chitarra, un computer, un libro, un th̩ e gocciole Рe una finestrona sul bianco di fuori.
Potrebbe essere la felicità.

Mentre

Mentre ti aspettavo in macchina, fuori dalla caserma, ricordavo di quando volevi aprire un bar. Era la risposta che davi alle elementari alla solita domanda troppo precoce sul futuro: c’erano gli aspiranti pompieri, calciatori e astronauti, e tu volevi aprire un bar, perché così avresti conosciuto tante persone.

Mentre raccontavi divertito del campo in Trentino, in cui ci si ammazza per finta gridando “fuoco” col giudice di gara che dice “morto” – oh un giorno mi sono trovato un angolino da cui miravo e non mi vedeva nessuno, ne avrò beccati centocinquanta! – ricordavo di quando sistemavi attentamente i soldatini fra i cuscini del divano, facevi con le labbra il rumore dello sparo e buttavi giù tutti i miei, senza che io capissi da dove veniva il colpo. Alla fine, tutto trionfante, tiravi fuori quel cecchino bastardo nascosto proprio lì, invisibile tra un angolo di federa e l’aggancio della cerniera.

Mentre mi spiegavi come hai guadagnato la stecca – assegnata al soldato che non è un cane, ovvero sta al gioco della naja con più dignità – e che da quando ce l’hai tu è finito il nonnismo – perché a te non frega niente di ‘ste cose, e poi ti sembra una cavolata che non si debba salutare il nuovo arrivato in camera solo perché è nuovo, ehi anche lui ha una mamma come voi, sapete, hai detto agli altri – ricordavo di quando non volevo che partissi, perché credevo che avresti perso te stesso, il te semplice, pezzodipane pieno di buon senso; temevo che quell’ambiente ti cambiasse. E proprio non prevedevo che tu avresti cambiato lui.

Mentre mi elencavi tutti i concorsi che hai vinto, raccontandomi di come, appena arrivato, gli altri ti deridessero per la tua ignoranza e così hai pensato che no, non ci stavi, allora hai preso uno di quei libri dei concorsi e hai cominciato a studiaree sai che la storia mi è piaciuta un sacco? – , ricordavo di quando eri sempre, sempre, sempre l’ultimo a consegnare i compiti, di come dovevo riassumerti i paragrafi del libro di storia in parole semplici, perché facevi fatica anche solo a capire il senso di una frase, di quando ti scrivevo io le due righe di mail per chiedere informazioni, perché non riuscivi a formulare neanche quelle.

Mentre scendevi dal mio furgone prendendo vaghi accordi per rivederci un giorno e finire il racconto, ricordavo di quando ancora credevo a quegli accordi, aspettando invano che fossi tu a cercarmi.
Ora che non ci credo più, è molto più tranquillo pensare che prima o poi, comunque, accadrà di nuovo.

[E percepirò ancora, con una specie di inquietudine notturna, il complessivo enorme-breve estendersi dell’esistenza]

Vuoti

Avrei potuto contarli come figurine, mentre me li elencavi con rara chiarezza. Ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho. I miei problemi, dico, quelli a cui da qualche tempo ho assegnato un’identità meglio definita, imparando a riconoscerli sbucare sotto varie vesti.

E’ vero, ti ho detto quando hai finito. E’ tutto vero.

Certo, poi ti ho spiegato perché è più vero con te – che non mi racconto, che non ammetto il bisogno, che mi sento inferiore, che non dò*. Paghiamo una combinazione sfortunata di caratteri e contingenze. Vorrei davvero che non fosse così, eppure.

(Spostare impercettibilmente i pugni sul tavolo avanti e indietro, nella contratta incertezza del gesto. Poi risolvermi a sollevarli, allontanarmi dal tavolo, girarci intorno – quanto era lungo quel giro! – e raggiungere la sedia che allarghi di un poco per farti abbracciare.)

*Non avevo mai pensato che dare, in una relazione, fosse anche creare, portare, produrre. Credevo che fosse lasciare uno s p a z i o – d’altra parte la gente è così affamata di spazi, non vede l’ora di riempire i propri e intasare gli altrui; perciò il modo migliore di guadagnarsene il favore sarà lasciargliene in abbondanza.

Così, ho passato la vita a creare vuoti.

(Aver paura di restare troppo, di accarezzare troppo, di affezionarmi troppo, quindi allontanarmi due volte per dire: sei libera, puoi scioglierti e andare. Ma non riuscirci, perché ancora stringi e mi chiami indietro, mi chiama indietro affondato nella mia spalla un farfuglio che non capisco.)

Ora lo sappiamo,
abbiamo detto. E quindi? Quindi niente, stiamo a vedere che succede. Magari nulla di nuovo, ma sarà un nulla diverso, perché ora sappiamo.

[In background, l’eco sottile di una vecchia sensazione nella memoria, come l’odore di zucchero filato che richiama un nonsoché di quand’eri bambina – ma ti sfugge, non sai più cos’è. Dicono che ogni sensazione attivi un unico e preciso schema di cellule nervose, e che il ricordo non sia altro che il riaccendersi dello stesso schema, proprio identico, solo un po’ sbiadito. Perciò ricordando sembra di rivivere.
E oggi ho riacceso per un poco – dopo tanto – i neuroni del vecchio affetto adolescenziale, così tragicamente ingenuo, contorto e totale.]

Spesso non è necessario

che le cose accadano.

Può bastare deciderle, prepararle accuratamente, completare la lotta interiore dei pro e dei contro, infine sgombrare il campo dalle ultime resistenze e disporsi con serenità agli avvenimenti.

Poi non importa se non accadono. Il lavoro più grosso, per la prossima volta, sarà già stato fatto.