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E qui finisce

il mio venticinquesimo anno.
Venticinque. Venticinque sono troppi, indiscutibilmente troppi. Quelli di 25 anni erano ormai grandi, sicuri di sé, facevano anche un po’ paura,
e comunque già lavoravano, o avevano un progetto nella vita, un moroso stabile o che ne so.

Mica come me. Io ho appena iniziato a vivere, sarà uno, due anni, toh. Mi sento ancora lontanissima dai grandi, continuano a farmi paura,

ma soprattutto,
ho bisogno ancora di tempo, tanto tempo, e venticinque significa che sono già passati, persi,
e per lo più buttati nel cesso, eppure sono tantissimi, se va bene ne vivrò altrettanti solo due volte, o poco più.

E poi: se divento grande, devo cambiare prospettiva. Già un po’ sento che sta succedendo.
Che altre cose iniziano a diventare importanti,
oltre alla solita corsa ad essere amati.

Tipo, il lavoro. Da un po’ lo cerco compulsivamente anche se non ne ho bisogno,
– servirebbe giusto per godermi la vita senza sensi di colpa –
e l’altro giorno, a tirocinio, c’è stato quel momento in cui mi sembrava finalmente di fare una cosa appassionante.

Per non parlare della casa, che tra un po’, temo, dovrò trovare
– e confesso che un po’ mi sogno ad arredarla.

Però ecco, venticinque sono proprio tanti,
sono tanti per strozzarsi con quel nodo in gola di fronte a ogni relitto dell’infanzia,
tanti per avere paura dei genitori e degli adulti,
e senz’altro troppi
per averli vissuti così poco.

.

Non credo di poter immaginare come ci si senta,

ma dev’essere proprio una merda.

Piccolo Bi, ti abbraccio forte.

Notti

Svegliandomi alle tre sono rimasta a guardare un po’ di notte, il mio piccolo bosco domestico.
All’inizio lo attraversavo lentissima per guardarlo più a lungo, mi sembrava così strano avere un parco privato dove potermi attardare col buio, senza guardarmi le spalle.

C’è stata una notte che potevo guardare solo dall’alto. Iniziava sull’orizzonte coi minuscoli grattacieli della fiera, proseguiva col buco buio della montagna del rusco, poi il profilo di mille luci e lucine che sapevo a memoria – se ne spuntava una nuova me ne accorgevo subito – per finire in grosse ombre nella casa del contadino. Ho immaginato per anni di andarci, sognavo di ritrovarmi in un luogo finalmente da sola, decidendo da me l’andatura, le soste, quando sdraiarmi sul prato. Quel pezzo di campagna abbandonata era il simbolo del mio non poter andare, era di certo l’ultimo posto dove avrei mai potuto restare la notte da sola.

Poi c’era la notte ristretta della casa in Sicilia, un rettangolo fatto apposta per frustrarti: di qua la casa, di là un dirupo, e perfino il paesaggio – fantastico, sul golfo – non potevi vederlo, completamente coperto dagli alberi. C’era, poco più in là, un angolo dove l’orizzonte si apriva, finalmente scoperto, ma andarci era un premio, una rarità: quei pochi metri di stradino troppo sconnesso…
Così mi illudevo di essere sola restando davanti alla porta, allenandomi a trovare le stelle, mentre gli altri erano già a letto. Avevo inventato le mie costellazioni, non conoscendo quelle vere, e le ritrovavo sempre. Ero adolescente, mi struggevo per una mancanza – ma dai! – e passavo ore in conversazioni immaginarie con gente che non c’era, che non ci sarebbe più stata, e che – impensabile, allora – avrebbe perso importanza.

Da qualche anno, finalmente, è arrivata una notte facile. Ci parcheggi la macchina, la attraversi comodamente su un vialetto di foglie, incroci ricci, picchi e talvolta una civetta, e d’estate ci puoi anche dormire. Rimane ad aspettarti appena fuori dalla porta, basta un gesto per ritrovarla, silenziosa, sotto gli alberi. Puoi passeggiarci anche alle quattro del mattino, dopo averla trascorsa in confidenze con un tè e una vicina.
E’ la prima notte su cui si è affacciato qualcuno che dormiva con me, ed è la notte in cui è andato via.

Anche io dovrò andare via, tra qualche mese.
In effetti le altre notti, che credevo non avrei mai potuto abbandonare o sostituire, non mi sono mai mancate davvero. Forse perché quelle nuove erano sempre un po’ migliori, più eccitanti, costellate di nuove possibilità, e alle vecchie non avevo tempo di pensare. Dev’essere come la vita in generale, per un po’ riesce anche migliorare, ma a un certo punto raggiungi un livello oltre il quale non vai.

E allora inizi seriamente a perdere.

Bellezza

Uscendo da tirocinio avevo sullo stomaco
la crisi economica, la gente senza casa, io senza casa, A. che ride senza capirmi

ma c’era un’aria tersa, mentre guidavo ho messo su la musica giusta,

e mi è sembrata davvero bella, così ho pensato che forse l’arte è più indispensabile quando si è tristi.

Foglie

Ho guardato le foglie nel vento in modo diverso,
stanotte,
quasi stessero davvero cadendo
per l’ultima volta.

[Lo so, anche questo non mi capiterà mai più. Mai più tornare a casa di notte
su un tappeto di autunno bagnato, dentro una pioggia di foglie.
Sapevo che sarebbe successo, prima o poi
– forse per questo ho sempre conservato, per il mio parco, un affettuoso stupore
e so di essere stata fortunata a godermelo,
anche solo per un po’.

Mi sa che questo è proprio l’anno
in cui si impara la separazione.]