Monthly Archives: Agosto 2010

Conto sulle parentesi quadre.

Dalla mia finestra (in alto, in alto al sesto piano) ho osservato per anni una vecchia casa colonica, rimasta non si sa come a pochi passi dal centro del paese. Ero abbastanza vicina per vederne le finestre, le crepe più grosse nei muri e i panni stesi fuori, quando ci abitava ancora qualcuno. Ero abbastanza lontana per non accorgermi che si trattava di un qualsiasi rudere pericolante, circondato da un confuso fogliame incolto, e forse abitato da zingari.
Ero abbastanza sognatrice per cancellare con l’immaginazione tutto quel che c’era intorno, e sentirmi un po’ in campagna. Per passare ore a guardarla dalla finestra, inventando storie su quando ancora lì c’era il grano e il buio era davvero buio. Prima o poi – domani, dopodomani – sarei scesa per vederla da vicino, mi dicevo.

-> L’hanno abbattuta qualche anno fa, senza che ci fossi mai andata davvero.

[Ora abito in un posto altrettanto bello]

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Inutile raccontare in quanti modi diversi ho immaginato, che so, il primo bacio. Sono esperienze di chiunque – basta moltiplicarle per un numero di anni un po’ insolito. Da quello col migliore amico a quello sotto al portone di casa in una notte d’estate a quello leggendo un libro alla Paolo e Francesca e mille altre patetiche versioni.

-> E’ successo invece in una maniera davvero orribile, che non avrei mai previsto.

[Ora succede abitualmente, in modo perfetto]

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Ho passato quasi tutta la mia carriera scolastica battibeccando coi professori. Litigavo e mi affezionavo più di tutti.
Mi arrovellavo su come io avrei potuto fare meglio. Su come non sarei stata noiosa. Mi figuravo di affascinare i miei studenti, di affabularli alla Keating – o in modo appena un po’ più cinico e realista. Mi vedevo a sfruttare le mie doti di teatrante dilettante per leggere con espressione e innamorarli di un poeta. O a incontrarli per caso nei corridoi, facendomi raccontare le loro crisi adolescenziali.

-> Ecco, non so cosa scriverci, qui. Sto per lasciar fallire anche questo sogno, e lo farò volontariamente, per il mio bene (?); per non rischiare di vederlo fallire da solo, ma in modo peggiore, dopo molti altri – noiosissimi – anni di studi.
Per non trovarmi di fronte a una realtà dei fatti assai meno poetica del previsto, per non finire annoiata a spiegare cose che mi annoiano – e che, molte volte, mi sembrano anche un po’ inutili. E per non dover scoprire che, fuori dal mio mondo immaginario, non sono in grado di parlare con adolescenti così radicalmente diversi da me – e non solo dalla me adulta, ma da tutte le me che sono mai stata.

Però mi dispiace. Avrei voluto vedere che effetto fa realizzare almeno uno dei vecchi progetti. Continuo a dirmi che è meglio così, eppure lo vivo come una specie di lutto.
Bisognerebbe avere una finestra sul futuro, da poter aprire almeno due o tre volte nella vita, nel momento di scegliere una strada. Uno si affaccia, vede come andrebbe a finire la storia, e poi decide.

Così, invece, mi rimane, – rimarrà sempre? – a tarlarmi la testa, il dubbio di come sarebbe stato.

[……… ? ………]

Pellegrinaggi

Dovevo pur raccontarla a qualcuno, la mia prima estate felice.

Prima ho cercato una vecchia prof. Ho tentennato molto nella solita paura di disturbare, poi ho deciso che era più grande il bisogno di raccontarmi. Come sembrava più piccola e grigia, senza il ruolo a difenderla. All’improvviso, aveva persino opinioni qualunque, anziché risposte divine. Potevo saperne di più su qualcosa, circoscrivere una paura (a M.? Hai fatto servizio civile a M.?), esporre progetti di vita.
Ma soprattutto, dovevo farle sapere che sono felice.
Mi ha regalato un braccialetto a portarmi fortuna.

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Poi, sono tornata dalla Cri, dopo altri tre anni. Andarla a trovare è sempre una specie di viaggio esistenziale; come tornare da un vecchio genitore, con cui però riesci a parlare apertamente.
Tre anni fa, dovevamo ripercorrere e aggiustare i ricordi di un’infanzia tormentata (la mia), che lei vide molto da vicino.
Stavolta, avevo una felicità da raccontare – con la soddisfazione di fare una sorpresa a chi forse (come me) non l’avrebbe mai detto.
Dovevo farle anche alcune domande, per comprendere le cose che non ricordo e interpretare quelle che ho sempre guardato da un punto di vista soltanto. Non ho scoperto niente che davvero non sapessi – un padre buffo, una madre performante, una sorella con qualche paura. Un matrimonio che forse procede più come progetto che per amore. I figli che tengono enormi distanze, come per fargli pagare qualcosa, non si sa bene cosa.
E poi educatrici che non servivano, che avrebbero potuto essere soltanto assistenti e dare una mano in casa, ma non si prevedeva niente del genere per i minorenni, la prassi era quella. Senza contare le pressioni di mamma per avere sempre più ore di assistenza, perché non fossi quasi mai sola. Il servizio sociale che ha fatto un errore a non opporsi.

Fa effetto, sentirselo dire chiaramente. Come arrivasse un’infermiera a dirti che è vero, se oggi sei così, e se per metà della tua vita hai lamentato atroce mal di pancia, è perché quel dottore, anni fa, ti ha lasciato una pinza nello stomaco. Ma quando urlavi e piangevi dicendo di sentirti lo stomaco a forma di pinza – avevi un’idea molto chiara della situazione – beh, ti zittivano come fosse un problema immaginario.
Ormai ho consumato la rabbia, e la pancia me la sono aggiustata da sola, col tempo.

Adesso fa piacere pensare che almeno lei se n’era accorta, che se ne fregava del mansionario (avevate bisogno che facessi la spesa, chisenefrega se non era “nelle mie mansioni”… anche perché cos’altro potevo fare? Insegnarti qualcosa? Te tra un po’ mi parlavi in latino…) e si faceva rimproverare perché si stava invischiando troppo, si faceva coinvolgere, creava un precedente scomodo per i colleghi.
Chissà se almeno è stata un’esperienza utile. In fondo la Cri ha fatto carriera, e forse ora prende lei quel genere di decisioni sull’assistenza alle famiglie. Qualcuno sarà più fortunato.

Il tempo ch’è passato si vede dai suoi nuovi acciacchi e dal nostro non saperci più abbracciare. Ma solo parlando con lei mi resta addosso quel senso di totale comprensione.
E’ l’unica a sapere esattamente di cosa parlo, quando racconto dei miei o di qualche vecchia me; lo sa direttamente, per averci vissuto, non secondo teorie o interposte persone. E può capire anche certe mie aspirazioni; mentre raccontavo episodi del servizio civile sembrava quasi di parlare tra colleghi – in fondo, anche se a distanza, potremmo diventarlo.

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Ai miei non posso dire della mia felicità, naturalmente. Per uno di quei motivi che non so.
Però una mail ironica sono riuscita a scrivergliela, comunicando nel solo modo che sappiamo: il bonario insulto e l’ironia. Ho speso appena più delle solite due parole, e ho condiviso banalità come la scelta di un corso di studi – eppure mi sento quasi nuda. Questo viaggio è ancora troppo difficile.