Monthly Archives: Agosto 2009

Sintesi del ciclo esistenziale per sms

– Io ho sprecato la giornata a far niente su internet (entità grigia e deprimente), poi mi sono decisa a cercare il senso della vita nelle nuvole, sono uscita e sto aspettando notte con un libro, nel parchetto dietro casa. Aaaaaah. La pace.

– Brava Ila, sii signora di te stessa, dei tuoi tempi e delle tue solitudini. Io ho finalmente realizzato quanti sono i neutri della quarta.

– Bravo Giulione, sii signore della Quarta.

– Ora però voglio sapere quanti sono quelli della quinta.

РE la notte ̬ arrivata.

– Silenzio.

[Non si è amici senza messaggi poetici]

QUESTE

sono le proteste da fare.

Altro che i sit-in da fintosessantottini annoiati.

Fate casino, per favore, fate tanto, tanto casino.

E non saprei rispondere

A volte ti penso nei fotogrammi grigi che mi racconta qualche conoscente comune. Provo a immaginarmi il nuovo profilo – più scavato, forse con una barba dimenticata troppi giorni – e la voce più stridula e piatta. Mi chiedo le mani – quelle prime mani! – cosa portano, se è vera quell’immagine rubata di un cilindretto di lenta morte che vi passavate di mano in mano.

Penso alle volte in cui litigavamo fino al mattino.

Dopo molto, molto tempo ho trovato i frammenti di verità su di me che mi porgevi confusamente insieme al dolore. Li ho seminati in qualche modo, nel mio modo, e quel che sta crescendo mi somiglia.

Penso a quando sognavi cose impossibili e ti arrabbiavi per quelle inevitabili.

Mi hanno detto che hai spento il telefono, il computer – e non credo sia per correre nei prati.

Se servisse, ti direi: vivi.
Ma mi chiederesti perché, con sincera innocenza. E non saprei rispondere.

Capisci che il lavoro ti sta deformando la mente

quando tua madre dice che vorrebbe andare a Rimini ma non c’è papà,
e allora le rispondi “beh puoi prendere il treno… dunque, ci sono quelli accessibili, ma tu comunque puoi anche sederti sul sedile normale e….”

Camillo Sbarbaro, Rimanenze

Occhi nuovi,
attoniti – che guardano
come una stampa colorata il mondo;
occhi colore d’aria,
anticipi di cielo sulla terra
– il dolore v’è l’ombra d’una rondine,
un’acquata di primavera, il pianto –

occhi cui non ardiscono guardare
altri occhi:

occhi soli
come orfani a mano per la via;
tetri come lo specchio
della camera ad ore che patì
la ripugnanza d’infiniti volti;
occhi che nessun piangere più lava;
occhi come pozzanghere, miei occhi.

Do’ vai? – 3

Non ricordo esattamente come ci siamo chiariti. Devo aver cominciato con una frase come “a te non interessa veramente il computer” e non so bene come ho concluso. In mezzo, qualcosa sul fatto che c’erano anche gli altri, io lavoravo lì per tutti e quindi non poteva pretendere che. Anzi, con loro passavo già più tempo che con chiunque altro, perché in fondo mi trovavo bene in loro compagnia.
Ho fatto molta attenzione ai plurali.

– A me piace parlare con te – ha detto lui, serio. – Sì, al di là che… – e con la mano ha scacciato qualcosa di fronte al viso – ma proprio parlare, parlo bene con te.

Così Vlad ha cominciato a parlare. Parlava la sera, nel periodo in cui Cesare stava male e non teneva banco, quando nella loro stanza si rimaneva a luce spenta e Dario si perdeva dietro la luce azzurrognola del portatile che teneva a letto, sul suo tavolino. Parlava sottovoce un italiano molto più fluente di quanto i suoi timidi monosillabi lasciassero supporre. Parlava, quasi sempre, di donne.
– Prima era facile. Trovavi una, le chiedevi, ci stava.
– Ci stava sempre?
– No, non sempre. A volte sì, a volte no.

Alzava le spalle, come fosse lo stesso.

Ho avuto la sensazione che per lui fosse lo stesso in modo diverso che per gli altri due. Dario non si era mai innamorato e gli pareva inconcepibile una storia oltre i due mesi. Cesare considerava le donne prede da vincere, e i no – se mai ne avesse presi – non li avrebbe mai raccontati.
Il rumeno sembrava seguire docilmente un copione scontato, senza fare domande allo sceneggiatore.

– Tu provi, se te la dà, bene, se no, pazienza… Provi un’altra! – sorrideva.

Gli ho chiesto se avesse sempre funzionato così, per lui.
Ha scosso la testa e mi ha mormorato una torbida storia di un anno, una ragazza del suo paese che lo tradiva col proprio patrigno – ma forse lui la obbligava, ho detto, cosa se ne fa una ventenne di un vecchio scassato – e perché allora non me lo diceva, ha risposto, – magari non poteva, era minacciata – mi ha fatto troppo male – ma ti cerca ancora? – mi ama ancora, ha detto, ma mi ha fatto troppo male.

Una sera l’ho vista, dentro un riquadro male illuminato di fotogrammi scattosi. Cercavano di comunicare via webcam, ma funzionava male; Vlad mi chiedeva di sistemarla. Vedevo che in chat si scrivevano qualche frase in rumeno. Non so cosa significassero, ma erano brevi: forse soltanto

– mi senti?
Non sento

– Capisci?

Non

capisco.

(- Non capivo, non capivo niente
è la stessa cosa che mi ha detto raccontandomi di quando – troppo piccolo, da bambino nel lettone di una donna troppo grande
Non capivo, non capivo niente.)

Do’ vai? – 2

– Do’ vai?
Vlad non mi parlava mai, come del resto parlava pochissimo con tutti. Però, quando vedeva che stavo per uscire dalla sua stanza o dal bar dove ci trovavamo, mi fermava sempre: “Do’ vai? Resta!”
Allora ridevo di lui, davanti a lui, e lo trattavo come un bambino o uno stupido. Gli spiegavo cosa avevo da fare, scandendo bene le parole e ostentando un’aria più scocciata possibile, per coprire malamente il fatto che, in fondo, il suo interesse mi faceva piacere. Prima di uscire mi voltavo verso Cesare o Dario, cercando complice solidarietà al mio fastidio, e quelli volentieri ammiccavano ridendo. Ormai era diventato una specie di gioco, quando stavo per allontanarmi lanciavo un’occhiata agli altri e stavamo ad aspettare la frase di Vlad. D’altra parte lui non faceva assolutamente nulla per camuffare il suo goffo corteggiamento, per cui noi non facevamo assolutamente nulla per camuffare la derisione.
Tengo a precisare che Dario e Cesare lo prendevano in giro con grande affetto, un po’ come si ride dei bimbi che inciampano o fanno un’espressione buffa. In qualche modo lui lo percepiva, e si lasciava mettere alla berlina.
Un giorno che avevano un po’ esagerato, però, sentii una specie di compassione per Vlad. Mi venne istintivo avvicinarmi per allungargli una mano sulla spalla. Ci ho ripensato subito e mi sono fermata, ma allo sguardo esperto di Cesare non sono sfuggita.

– Guarda, era partita pe’ faglie ‘na coccola – ha detto ad alta voce – poi s’è fermata pensando “meglio de no, che se lo tocco questo ce se fa ‘na pippa”…

In effetti era esattamente quello che avevo pensato.

Naturalmente Vlad aveva perso ogni attrattiva ai miei occhi nel momento in cui avevo scoperto che era rumeno e abbastanza ignorante, e quindi che il suo silenzio non nascondeva chissà quali affascinanti abissi interiori, ma una semplice difficoltà linguistica. L’ultima briciola di fascino se l’è bruciata quando l’ho visto imbambolarsi dietro ogni ragazza – ma proprio ogni – per cui il suo interesse per me è passato in fretta da lusingante a degradante. Anzi, ho avuto modo di deprimermi fuggevolmente riflettendo su quanto riuscissi ad attrarre soltanto dei disperati.

– Do’ vai? – mi ha chiesto un giorno, per la millesima volta.
– In sala informatica – ho risposto – c’è un signore che mi ha chiesto di insegnargli una cosa al computer…
– E quand’è che tu insegni computer a me?
– Eh… c’è il corso base, lo tiene il mio collega. Se vuoi farlo parlane con l’educatore…
РMa no il tuo collega, voglio farmi insegnare da te. Perch̩ agli altri insegni tu e a me no?
– Beh quel signore mi ha solo chiesto un favore, io…
– E se te lo chiedo io?

Al che mi è sembrato il caso di affrontare l’argomento schiettamente.

[…continua…]

Do’ vai? – 1

Tenero. Così ho pensato la prima volta che l’ho visto entrare in sala informatica. Magrolino, una faccetta pallida con gli occhi piccoli e la testa rasata rivolta un po’ in basso. Chiedeva al mio collega di imparare a usare il computer. Il collega ha cominciato a spiegargli cos’è il desktop, ma il magrolino l’ha subito interrotto: “E macchine? Non ci sono giochi di macchine?”

Per un po’ di tempo io e lui abbiamo incrociato più sguardi del dovuto. Al karaoke si teneva sempre lontano, a distanza di sicurezza dal microfono, ma senza mai andarsene. Oppure se ne andava e poco dopo ripassava, fermandosi di nuovo a guardare.

– …ma dico, potevo conosce’ un rumeno che ruba, stupra, e invece che m’è toccato? Il rumeno col lavoro in regola…
C’è voluto Cesare, con la sua affettuosa violenza, perché potessi conoscere Vlad – o almeno, perché gli sentissi dire qualche parola.
– E che cazzo.
“E che cazzo” era indubbiamente l’espressione italiana che Vlad aveva imparato meglio. La usava un po’ in tutte le occasioni, comprese le rare volte in cui si difendeva dalle prese in giro degli altri. Nella maggior parte dei casi, però, si limitava a sorridere scuotendo la testina rasata.

Quando vedeva passare una ragazza, sgomitava a Dario e iniziava a fissarla ad occhi sbarrati, seguendo l’ondeggiare del culo di turno finché non spariva definitivamente dal suo orizzonte. Dario si premurava allora di esprimere a voce i coloriti commenti che Vlad si limitava a pensare.
A volte ammiccavano fra loro, o si facevano dei segni che mi lasciavano un po’ spaesata, finché non individuavo l’obiettivo e finalmente capivo.

Non sono mai stata così consapevole di essere donna come nei momenti in cui tentavo invano di inserirmi nel cameratismo maschile che si era creato tra loro – o quantomeno di comprenderne al volo i meccanismi. Allo stesso tempo, non mi sono mai sentita così poco donna, vedendo con quanta tranquillità, man mano che si prendeva confidenza, Dario mi metteva a parte dei loro commenti senza vergogna. In più, non ero certo tra le ragazze che loro si voltavano a guardare.
In qualche modo ero uscita dalla categoria donne-mondo-a-parte-con-cui-censurarsi-e-apparire-decenti, ma ovviamente non potevo entrare in quella degli uomini-con-cui-condividere-istinti-su-un-piano-paritario. Cercavo allora un ruolo in quel limbo di mezze confidenze.

[…continua…]

Che tu capisca

Quindi, la persona che mi aveva detto, forse, le parole più belle che un amico mi abbia mai dedicato

ora mi ha lasciato – come addio – le più violente mai ricevute.

Aggiungerò un post-it nella bacheca dei sogni a lungo termine:

che tu capisca.

[Capiterà, capiterà un giorno che ti svegli come sempre e ti stropicci gli occhi sbadigliando, capiterà senza bisogno che nessuno te lo spieghi e forse a mala pena te ne accorgerai, distratto tra un pensiero nuovo e l’altro: semplicemente ti parrà chiaro, di una chiarezza naturale – e chiudendo lo sbadiglio scuoterai appena la testa, per tutti gli anni in cui non ci avevi badato – il perché è successo.]

Gottagrassie

Stava cercando di venderci le rose sotto le due torri; era un omino in jeans e maglietta dall’aria indianeggiante, un po’ scuro. Sovrapponeva ai nostri no, grazie qualche frase indecifrabile in inglese confuso – sì, sarà la solita tiritera ho fame ho cinque figli e uno è malato grave ti prego un caffé un caffé sei bellissima buona fortuna.
Ma mentre guardavo da un’altra parte, per ostentare indifferenza a scopo dissuasivo, ho iniziato a captare un senso. Ho tradotto qualcosa per gli altri – quando lavoravo là mangiava tutta la famiglia, ora con gli stessi soldi non mangio manco io – gli altri hanno cominciato a guardarlo facendo domande – ma lo sai che potresti andare in una scuola di italiano gratuita? – e lui ha cominciato a rivolgersi a me per raccontare.

Il venditore di rose è in Italia da due mesi e viene dal Bangladesh. Abita alla Barca – mi ha detto pure l’indirizzo – con degli amici. All’inizio della conversazione aveva speso two thousand euro per il viaggio e i documenti, alla fine erano twelve thousand, non sapremo mai la verità. Li ha dati a un amico che gli aveva promesso lavoro. Naturalmente non l’ha trovato.
Tutti i giorni cerca lavoro, e tutti i giorni non lo trova. Intuendo che la sua quasi totale incapacità con l’italiano sia un bell’ostacolo, gli abbiamo suggerito di seguire un corso per stranieri. Ha detto che sa che esistono, ma in estate sono chiusi, giustamente.
Per un periodo ha fatto il saldatore a Singapore. Mi è venuto in mente il Terzani appena letto, “Un indovino mi disse”, in cui parlava della folla di immigrati che sostiene l’economia singaporiana.
Sempre che Singapore non fosse uno strafalcione per saldatore. In ogni caso, saldatore l’ha detto in italiano. Forse qualcuno gliel’ha insegnato in modo che sapesse dire almeno cos’è che sa fare.
Adesso che knows Italy, ha capito che non era proprio come gliel’avevano promessa. Gli ho chiesto would you like to come back in Bangladesh, ma forse would you like era una struttura troppo complicata e mi ha risposto un’altra cosa.

Sono contento, ha detto, perché everyone says gottagrassie. Ce lo siamo fatti ripetere una decina di volte, prima di capire che intendeva: tutti dicono go, vai, grazie, mentre voi avete parlato con me.

Alla fine eravamo quasi tentati di dargli qualcosa, ma ho pensato che, se prima gli avevamo detto di no, ora non era giusto cambiare idea. Non volevo pagare la sua storia.
E’ qui da poco, e non sa ancora che ostentare simpatia e raccontare storie, più o meno vere, serve a comprare la pietà degli italiani. Non ho voluto insegnarglielo io.

Andando via si è voltato, my name is Alì!.

Good luck, Alì.