Cri

T’ho vista arrivare al di là del binario, con tuo marito; tu ti sei voltata, prima senza riconoscermi, poi ti sei accorta e incredula hai gridato il mio nome. Io ridevo.
E’ stato perfetto.

Non ci vedevamo dal giorno del tuo matrimonio, circa tre anni fa. Avevo avvertito Ricky e lui s’era inventato una bella storia per spiazzarti: bisognava prendere alla stazione la sua vecchia maestra, t’aveva detto, una suorina decrepita e acida che detesti; t’eri lasciata trascinare giusto per misericordia. E invece hai trovato me.
M’hai portato da voi; due piani di casetta indipendente col giardino grande e il piano terra ancora in cantiere, adibito a fantasioso magazzino delle cose che aspettano d’essere sistemate. Appena scesi dalla macchina ci ha assaltato Vito, un cane che pare un po’ l’Aki di Elena, ma in versione bianconera e iperattiva.
Fuori giocava a pallone il tuo figlio temporaneo, frangetta, occhiali e parlantina incoerente. Poi mi avresti raccontato che ha quattordici anni, qualche problema mentale non identificato, un padre depresso e una madre ritardata; perciò, almeno fino ai diciott’anni, lo hanno affidato a un padre industriale e a una mamma amorevolmente folle. Cioè te.
Siamo andati al ristorante, e non c’entrando tanto coi vostri discorsi son rimasta a osservare per un po’ il quadretto familiare, i battibecchi e la lezione costante che fai a tuo figlio – quant’è lungo un metro? Un metro e venti è di più o di meno? – riordinandogli i discorsi a uno a uno, non rispondendo mai "niente" per lasciar cadere una domanda stupida, non ignorando mai il suo farfugliare sconclusionato.
Quando siamo tornati a casa, gli uomini sono andati a rubar legna per il camino e tu sei affondata con me su quel divano morbidissimo, parlando di tutto.

E credo che abbiamo parlato per la prima volta.
Di te, di me, di com’era con le educatrici e con i miei, di quando ti ho cacciato dalla classe in seconda media, delle mie strategie di sopravvivenza negli ultimi anni con le guardie, dell’orgoglio e della vergogna, del cambiamento che fa bene – ed è triste, eppure anche il tuo andartene m’ha fatto bene – della mia vita di adesso (tanto, tanto diversa), della mia nuova libertà e di quella domanda che mi avresti voluto fare, ma a cui ho risposto da sola per prima – no, non sceglierei di nascere.
Avevo immaginato tante volte di fare con te prima o poi un bel discorsone, raccontarti quel che sono e spiegarti quel che ero; chiarire con le parole di adesso cose che sapevo anche prima, quando però non avevo l’occasione, il coraggio, la sicurezza e il distacco necessari per abbandonarmi alla verità.

Oggi, pur tra le interruzioni delle circostanze e del tuo pensiero irrequieto – sempre incostante, saltellavi fra gli argomenti seguendo il tuo filo – ci sono riuscita.
E com’era stato dopo il tuo matrimonio – allora non parlammo quasi per niente, eppure fu a suo modo perfetta anche quella giornata – me ne torno con in tasca la pacifica soddisfazione di chi è contento e non ha nient’altro (niente, nemmeno un’aggiustatina a quel dettaglio che rende imperfetti anche i giorni migliori) da desiderare. Forse, vedendo quanto c’ha fatto bene la distanza, non rimpiango nemmeno di non poter condividere la quotidianità.
Certo, quelle due tre volte l’anno sarebbe bello potersi rivedere. Tanto ormai, fatta la prima…

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