La giornata migliore

Comincia con tre ciotole blu, ultimi arrivati nella mia casa blu e arancione. Stanno così bene, vivrei in un mondo blu a chiazze arancioni. Prosegue con una telefonata inattesa, lunga e intelligente, sagace come sempre, di quelle in cui assapori la qualità del dialogo con una specie di piacere fisico. Poi è tempo dell’ultima ripassata, dimentico qualcosa come ad ogni generale, ma so bene di conoscere la parte.

Qualcuno mi precede addrittura, poi lo raggiungo e aspetto la fila degli amici, bacio di qua, bacio di là. C’è qualche grave assenza, ma me ne accorgo solo tardi – succede alle assenze ostinate, si allargano fino alla memoria.
Arriva il momento e si va veloce, dicono che abbia parlato con quasi sufficienza, io non saprei, ero impegnata a rileggere il copione nella testa e a dosare gli sguardi tra il muro e i togati, cercando approvazione nel millimetro di mento che s’inclina. Spiego anche come mai ho fatto un poco a modo mio, scegliendo testi che dicessero qualcosa, senza immolare alla linguistica il piacere. Se gioco al limite coi punti, tanto vale rischiare sulla carta che di solito funziona: mostrare personalità.
Quindi abbracci di rito, tra braccia che dei riti non hanno mai saputo nulla – perciò s’impastano, si aggrappano o si mancano. Qualche foto goffa, poi lo scherzo inesorabile, proclamare Moccia in strada con in testa una corona di cartone giallo, a dichiararmi regina dei libri spazzatura. La creativa dedizione di qualcuno mi commuove. Manca un po’ di iniziativa, ho amici troppo seri come me; ma col campo visivo ingombrato di alloro ti senti in grado di qualsiasi cosa, e allora Cathia ha il più bel culo d’Europa.

Più tardi, aperitivo a un tavolo strano: campioni casuali degli ultimi nove anni, incredibilmente capaci perfino di parlarsi; e una foto leggendaria col pilastro burocratico di Facoltà.
Quando riesco a defilarmi, finalmente coccole. Che più della laurea segnano un punto d’arrivo.

Infine, una cena a cui non avevo tanta voglia di andare, ma sapevo che in fondo era per me, avevano insistito troppo perché ci fossi. Un brindisi che non so fare – ah, queste maledette, sconosciute situazioni sociali! – ma in fondo sto diventando affettuosa anche verso le mie gaffes. Poi un regalo azzeccato, non tanto per l’oggetto – Gaber – ma per il valore, come un riconoscimento di identità. E comunque, riuscire a far cantare Destra-sinistra a un gruppo di ciellini dà una certa soddisfazione, per quanto ci fossero già precedenti.

Ah, dimenticavo la Bellezza. E’ stato scioccante vederla sbucar fuori all’improvviso, scrollando via con un gesto l’abituale, lardosa goffaggine che la soffoca in quel corpo. E non si tratta solo della qualità dei gesti e della recitazione improvvisata da un dilettante di talento; era piuttosto la bellezza di una specie di speranza – come a ricordarmi di avere fiducia, ché dal letame nascono i fior.

Finisce – la giornata – tornando sul vialetto con gli alberi di notte, che fanno un po’ paura – un filo di vento e già tremano, i pioppi fanno presto a frusciare forte fino al fondo dell’orecchio.
Mi fermo lì un minuto, chiedendomi quando sarà il turno del mio filo di vento – a me ne basta proprio un soffio appena, sto come d’autunno / sugli alberi le foglie. E poi ormai sono fregata, se davvero non ti tocchi chi più t’ama: l’ho toccata.