Pellegrinaggi

Dovevo pur raccontarla a qualcuno, la mia prima estate felice.

Prima ho cercato una vecchia prof. Ho tentennato molto nella solita paura di disturbare, poi ho deciso che era più grande il bisogno di raccontarmi. Come sembrava più piccola e grigia, senza il ruolo a difenderla. All’improvviso, aveva persino opinioni qualunque, anziché risposte divine. Potevo saperne di più su qualcosa, circoscrivere una paura (a M.? Hai fatto servizio civile a M.?), esporre progetti di vita.
Ma soprattutto, dovevo farle sapere che sono felice.
Mi ha regalato un braccialetto a portarmi fortuna.

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Poi, sono tornata dalla Cri, dopo altri tre anni. Andarla a trovare è sempre una specie di viaggio esistenziale; come tornare da un vecchio genitore, con cui però riesci a parlare apertamente.
Tre anni fa, dovevamo ripercorrere e aggiustare i ricordi di un’infanzia tormentata (la mia), che lei vide molto da vicino.
Stavolta, avevo una felicità da raccontare – con la soddisfazione di fare una sorpresa a chi forse (come me) non l’avrebbe mai detto.
Dovevo farle anche alcune domande, per comprendere le cose che non ricordo e interpretare quelle che ho sempre guardato da un punto di vista soltanto. Non ho scoperto niente che davvero non sapessi – un padre buffo, una madre performante, una sorella con qualche paura. Un matrimonio che forse procede più come progetto che per amore. I figli che tengono enormi distanze, come per fargli pagare qualcosa, non si sa bene cosa.
E poi educatrici che non servivano, che avrebbero potuto essere soltanto assistenti e dare una mano in casa, ma non si prevedeva niente del genere per i minorenni, la prassi era quella. Senza contare le pressioni di mamma per avere sempre più ore di assistenza, perché non fossi quasi mai sola. Il servizio sociale che ha fatto un errore a non opporsi.

Fa effetto, sentirselo dire chiaramente. Come arrivasse un’infermiera a dirti che è vero, se oggi sei così, e se per metà della tua vita hai lamentato atroce mal di pancia, è perché quel dottore, anni fa, ti ha lasciato una pinza nello stomaco. Ma quando urlavi e piangevi dicendo di sentirti lo stomaco a forma di pinza – avevi un’idea molto chiara della situazione – beh, ti zittivano come fosse un problema immaginario.
Ormai ho consumato la rabbia, e la pancia me la sono aggiustata da sola, col tempo.

Adesso fa piacere pensare che almeno lei se n’era accorta, che se ne fregava del mansionario (avevate bisogno che facessi la spesa, chisenefrega se non era “nelle mie mansioni”… anche perché cos’altro potevo fare? Insegnarti qualcosa? Te tra un po’ mi parlavi in latino…) e si faceva rimproverare perché si stava invischiando troppo, si faceva coinvolgere, creava un precedente scomodo per i colleghi.
Chissà se almeno è stata un’esperienza utile. In fondo la Cri ha fatto carriera, e forse ora prende lei quel genere di decisioni sull’assistenza alle famiglie. Qualcuno sarà più fortunato.

Il tempo ch’è passato si vede dai suoi nuovi acciacchi e dal nostro non saperci più abbracciare. Ma solo parlando con lei mi resta addosso quel senso di totale comprensione.
E’ l’unica a sapere esattamente di cosa parlo, quando racconto dei miei o di qualche vecchia me; lo sa direttamente, per averci vissuto, non secondo teorie o interposte persone. E può capire anche certe mie aspirazioni; mentre raccontavo episodi del servizio civile sembrava quasi di parlare tra colleghi – in fondo, anche se a distanza, potremmo diventarlo.

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Ai miei non posso dire della mia felicità, naturalmente. Per uno di quei motivi che non so.
Però una mail ironica sono riuscita a scrivergliela, comunicando nel solo modo che sappiamo: il bonario insulto e l’ironia. Ho speso appena più delle solite due parole, e ho condiviso banalità come la scelta di un corso di studi – eppure mi sento quasi nuda. Questo viaggio è ancora troppo difficile.