Senso – 1

– Vai al terzo?
– Sì.
Salivo insieme a una donna intabarrata nel camice verde, con in testa la cuffia da medico della terapia intensiva. Uscite dall’ascensore, ci stavamo dirigendo lei verso il bugigattolo dei medici di guardia, io verso la sala informatica.
РTu vieni spesso qui? Рsi ̬ fermata. Strano che un medico si fermi e ponga una domanda sorridendo.
– Alcuni giorni la settimana; – ho spiegato – faccio servizio civile qui. Ormai è un anno, anzi… questa è proprio l’ultima sera.
Poco più indietro, qualcuno schiamazzava giocando a ping pong. Ho ricordato la prima volta che sono uscita da quell’ascensore, vedendomi schizzare davanti una pallina, seguita da due carrozzine all’inseguimento.
– Aah, però. Strano, non ti ho visto in giro… allora hai finito. E poi che farai?
– Mah, continuerò a studiare. Faccio Lettere – le ho detto, sempre più perplessa dalla sua aria accogliente. Non ho mai visto un medico che non fosse di fretta. Si era sistemata di fronte a me, in piedi ma con l’aria di chi si accomoda per la conversazione.
Mi ha chiesto quando intendevo laurearmi, e se avevo idee per la tesi.
– Non mi faccia domande difficili! – ho scherzato.
– Perché non sfrutti l’esperienza che hai fatto qui? – mi ha suggerito.
– Beh, non è molto attinente…
– Come no! Ci sono… ci sono tanti argomenti invece… – ha cominciato ad annuire, pensosa – che so… la sofferenza nella letteratura.

Ho cercato di non ridere.
– Avresti tanti spunti, non trovi?
– Mah, guardi. Forse proprio perché ne ho vista parecchia, credo che oltre le riflessioni… le filosofie… ecco, se posso parlare in parole povere, al di là di tutte le pippe mentali che ci possiamo fare sulla sofferenza – (mi sono chiesta se pippe mentali fosse un’espressione adeguata a una conversazione di circostanza con un medico sconosciuto, e mi sono risposta che l’ultimo giorno si poteva fare anche questo) – la conclusione è che comunque la mattina ci alziamo e dobbiamo vivere, via.
Godevo a riportare il discorso su un piano cinico e apparentemente superficiale. Doveva esser la soddisfazione per la scoperta di non aver più bisogno di dimostrarmi a ogni costo persona profondissima – credo succeda quando uno si convince finalmente di esserlo davvero.

Sulla dottoressa è passata una rapida ombra di delusione. Poi ha elaborato i suoi argomenti, calibrando un vigile tono accomodante.
– Certo, ma sai… un conto è per gli autonomi, io una volta a un paziente gli dissi guarda, tu hai le braccia, tu sei a posto, ti farai una vita più o meno normale. Ma gli altri? Io lavorando qui mi sono molto interrogata sul senso di tutto questo…
– Beh, per i tetraplegici si può sempre recuperare un’autonomia mentale, l’autonomia di gestire la propria vita e le persone che ti aiutano – ho risposto. Mi ero salvata recuperando dalla memoria un argomento che dovevo aver sentito a qualche corso psicologico.
– Sì… sicuramente – ha ripreso – ma… ma… allora quelli che non hanno più nemmeno quella possibilità?
– I cerebrolesi?

[…continua…]