Ti brillano gli occhi – 2

– Ma… ma sai che io ti volevo conoscere – ha sorriso il ragazzo dagli occhiali sottili. Parlava un toscano molto amichevole e tranquillo, screziato solo all’inizio da una nota d’incertezza. – Già l’altro giorno, che ti avevo visto, lui – ha accennato all’amico lì accanto – mi aveva detto di presentarci, ma poi ho detto no vabbè, così dal niente…
– Allora presentiamoci!
Mi sono avvicinata e gli ho stretto la mano. Lui si chiamava Claudio.

– Ecco – ha continuato, come riprendendo il discorso lasciato a metà – volevo conoscerti perché ti brillano gli occhi.

– …Cosa?
– Sì, hai un’aria molto serena, sembri davvero tranquilla, hai questo sorriso, ti vedevo anche prima mentre cantavi…

So che a leggerlo potrebbe sembrare un maldestro tentativo di approccio, ma credetemi, il tono e il contesto non lasciavano dubbi.
Era qualcosa di molto più lusinghiero.

Claudio mi ha raccontato la sua vicenda con una parlantina fluida e divertita, e man mano che andava avanti capivo perché mi aveva subito colpito, e perché il suo commento sulla mia serenità mi era sembrato così diverso da tutti gli altri.
Lui non notava i miei occhi che brillano con l’invidia un po’ incredula di chi non ha più motivi per brillare, e si chiede sconsolato cos’ha lui di meno. Né ardeva della tragica speranza di una madre che, vedendomi, si domanda se il figlio disastrato potrà mai diventare così.
No. Claudio mi aveva riconosciuto: ero una coi suoi stessi occhi.

A quindici anni – faceva già l’agricoltore – iniziò a combattere contro una malattia del midollo spinale. All’inizio solo formicolii e debolezza, poi andò peggiorando a scatti, passando dalle stampelle al deambulatore e infine alla carrozzina.

– Ma io non capisco chi ce l’ha con la carrozzina. Per me non è mica un problema. Anzi, mi è stata un sacco utile…

Ero così felicemente stupita che sono andata a stringergli la mano una seconda volta, per puro entusiasmo.
– Era ora che qualcuno lo dicesse – ho risposto – Dovresti dirlo un po’ in giro, sai bene che da queste parti non è che ne siano convinti in molti eh…
– Ah, lo so. E’ che qui sono post acuti, è ancora troppo presto. Ci vuole tempo. La volta scorsa che fui ricoverato qui conobbi un tetra che mangiava sempre in camera sua, perché si vergognava a usare quel suo cucchiaio legato alla mano, a far vedere che magari gli cadeva qualcosa fuori dal piatto… Io andavo sempre da lui, finché l’ho convinto ad andare in mensa, e mangiavamo insieme in mensa, e gli dicevo beh che ci fa se ti cade qualcosa, tu vai tranquillo e non pensare a come fanno gli altri, tu vai per la tua strada… Beh sai com’è finita? Qualche giorno prima che andasse via, io lui e i suoi siamo andati a mangiare al ristorante, qui di fronte!

Ammetto che per un attimo l’ho invidiato. In dieci mesi di servizio civile non avevo combinato niente del genere, tutta presa dalle menate psicologiche sul rispetto dei tempi, della volontà e dei limiti altrui. Forse aveva ragione Matteo l’educatore, certa gente bisogna prenderla e sbatterla a fare quel che deve, anche controvoglia.
Le psicologhe dell’ospedale non erano mai state d’accordo.

[…continua…]