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Arca – II parte

– Tu e la Vero andate lì alle calotte; Vero, spiegale come fare.
Abbiamo raggiunto i lavoratori nel capannone; era zeppo di scatoloni, tubi, carrelli elevatori e colorato disordine. Gli operai gironzolavano attorno ai quattro lunghi tavoli centrali; mi sono piazzata in quello più vicino, dove un apposito contenitore riversava vagonate di pezzi plasticosi da assemblare. La mia compagna ne sapeva meno di me, così ci siamo rigirate fra le mani i componenti per un po’, finché non è arrivata Maria Rosa a elargirci sommarie spiegazioni – nonché a iniziare il racconto della sua biografia.
Mi stavo applicando alle calotte, quando un ragazzo barcollante è venuto a svuotare la casse dei pezzi completati, accanto a me. Poi s’è sistemato nella postazione accanto alla mia.
– C-c-ciao, sono Cristian!
Non so esattamente come si scriva; ma tanto per me non lo sapeva nemmeno lui, quindi non è un problema.
– E’ m..m..meglio che li metti così, guarda – m’ha detto, cominciando a tirar fuori i pezzi uguali, mettendoli in fila. – Ce…Ce li metti tutti e poi metti gli altri, così. Capito?
Ho visto una mano contratta montare i tutti secondi componenti sui primi messi in fila, quindi i terzi sui secondi, in stile catena di montaggio. Considerando che avevo passato i dieci minuti precedenti a completare ogni tubo uno per volta, m’è sembrato di essere un po’ stupida. E deve esser sembrato anche a lui.
– Ok, f..facciamo ch…che tu me li metti solo in fila e io li… li monto… capito?
Capito.

Mi sono un attimo spostata per avere più spazio di manovra; – Guarda che non mi davi fastidio, – m’ha detto, e mi ha messo i freni. Generalmente detesto queste cose, ma quella situazione non poteva rientrare in nessun generalmente.
– Lo… lo so fare per… perché v..vado all’aias a dare una mano ogni tanto! – mi ha spiegato. – Li por..porto in giro!
Aias, aias. L’avevo già sentito, questo nome. Aah, gli spastici. Sì, lui è spastico, quindi va all’aias. ’Spetta, però, a dare una mano? Ma se lui è spastico, gli altri dovrebbero dare una mano a lui e non… In questa conversazione c’è qualcosa di ribaltato. Mi sto perdendo.
– Tu ci…ci vai all’aias? – m’ha chiesto, vagamente apprensivo. – Hai d…degli a…amici?
Lo sapevo. C’è qualcosa di sempre più ribaltato. Non era lui a dovermi fare queste domande.
– Ehm, no, all’aias no. Però esco spesso con gli amici di scuola.
– Scuola? V..vai a scuola?
– Sì, faccio lo scientifico – gli ho risposto, con una specie di becero orgoglio. Mi venne in mente Nati due volte, dove l’autore descrive le madri di figli disabili che s’affannano a pubblicizzare le abilità residue dei pargoli, gareggiando a MioFiglioE’MenoDisabileDelTuo.
– Eh? – borbottò. Mi resi conto che non capiva.
– Beh… sì, si studia… tipo.. italiano, matematica… queste cose – ho spiegato. Lui mi ha quasi riso in faccia, tra il divertito e l’interdetto:
– Ma… non vai a lavorare?

Più tardi è passato un tipo dall’aria incazzata, a riempire gli scatoloni da cui prendevamo i componenti. Ha rovesciato la sua frana di affari di plastica, indirizzando a Cristian un gratuito “non rompere le palle”, ed è andato via. Cristian è rimasto zitto a fissare il vuoto, come raggelato. Poi ha abbassato la testa, e ha ripreso a montar calotte; ma ora si sbagliava spesso, così glieli aggiustavo di nascosto.
Rapidamente riempivamo casse di pezzi completati, e ho cominciato a chiedermi quanti diavolo di impianti di irrigazione esistano al mondo. Quei cinque o sei dipendenti trasognati – che lavoravano con la musica accesa a sottofondo, e potevano chiacchierare o fermarsi quando volevano senza essere redarguiti – stavano otto ore al giorno a fare la stessa identica, stupida cosa, producendo un’infinità di piccoli tubi per irrigatori, che poi vendevano sul serio.
Io, tempo un’ora e mezza mi sentivo già profondamente partecipe dello scontento degli operai ottocenteschi, sfruttati dodici ore al giorno in catena di montaggio. Che gioventù smidollata.
– E io sto…sto qui da stamattina eh! – ha sorriso lui, però non sembrava tanto dispiaciuto. Stefanino dice che quella è l’unica azienda in cui, quando si chiude, i lavoratori piangono.

Poco prima delle cinque è arrivato un omone allegro a diffondere nel capannone il suo potente accento toscano. Ha salutato un po’ tutti, Firenze, scherzando qua e là con noi e con gli operai; poi li ha raccattati sul suo furgone, per riportarli chi a casa, chi in qualche comunità o ospedale.
I miei compari andavano verso l’autobus, io aspettavo mio padre, in ritardo come al solito. Sono rimasta a gironzolare per la fabbrica vuota, accorgendomi di qualche dettaglio che m’ero persa. La parete in fondo era ricoperta delle foto di tutti quelli che c’erano passati – chissà, forse mancava quella del tizio che prende le sue foto e le strappa. Vicino all’entrata c’era un angolino con altre foto, il vecchio Papa, un ripiano con due statuette africane e delle piccole pietre in fila, a formare una strada. In alto, sul soffitto, qualcuno aveva dipinto una specie di grosso affresco a tema biblico. Ora non ricordo bene cosa fosse. Forse, un’arca di Noè.

Arca – I parte

– Ma è questo il posto?
– Beh, credo di sì… è un’azienda…
…Perciò doveva essere normale parcheggiare in uno sterrato pozzangheroso, tra furgoni, casse e rotoli di filo elettrico. Un giovane in tuta è uscito da una specie di serranda aperta, ci ha guardati un attimo, poi s’è chinato sul suo lavoro, ignorandoci.
– Beh, suoniamo?
Al campanello non rispondeva nessuno. Dalla porta aperta sono venute fuori una bionda in camice bianco e una ragazza non più alta di un metro e mezzo, vagamente deforme – allora no, mi son detta, non ho sbagliato posto. Mio padre ha continuato a guardarsi attorno per un po’, poco convinto. Era assolutamente buffo e fuori luogo, un barbuto omino nero con cravatta e cappotto, sperso davanti a un capannone, a guardarsi intorno con aria smarrita. Dicono che gli uomini non vogliano chiedere informazioni a costo di perdersi nella tundra, perché è poco dignitoso per un maschio-dominante-predatore. Lui è meno virile di un dodicenne, ma i retaggi animaleschi li ha ancora tutti. 
– Ehi! Scusate, sono arrivati dei ragazzi, qui, per caso? – ho domandato, accennando alla bionda; ché l’altra non sapevo se capiva. Certo, anch’io ho i pregiudizi di tutti, che credete. Quella mi ha guardato stringendo gli occhi.
– %”&£@#* ?
– …EH? 
Ok, l’ho beccata straniera. Forse capiva meglio l’altra. Per fortuna, nel frattempo era uscito anche un nero riccioluto, più ferrato con l’italiano. M’ha detto che erano già dentro, e mi ha dato una mano a entrare. 
Ho intravisto il naso paterno affacciarsi dalla porta blaterando di venirmi a prendere; dopodiché mi sono tuffata anima e corpo in quel pianeta altro.

Stavano in maggior parte seduti al tavolone della cucina; qualcuno girovagava, altri affondavano nel divano; tutti si chiacchierava rumoreggiando un bel po’; ogni tanto una risata, una pacca sulla spalla. Pareva una festa. Alcuni di noi, che come me non c’erano mai stati, rimanevano da parte, restii a gettarsi nel mucchio di quell’umanità fuori dagli schemi. Io, non so perché, ma m’è piaciuto subito. Beh, quasi.
– Ciaaaao! – ha cantilenato una signora seduta vicino a me, in un tono strano; poi s’è voltata sulla sedia per porgermi la mano, con un sorriso storto. Gliel’ho stretta.
– Vieni anche tu a lavorare qui? – ha chiesto entusiasta.
Mi veniva da ridere; appena entrata m’avevano subito scambiato per una di loro, così, perché abbiamo scritte in faccia le nostre diversità. In qualche modo, per loro anch’io stavo da quell’altra parte.
– Ehm… no, cioè… beh, non mettiamo limiti alla provvidenza, chissà un giorno…!
Dai, se fallisco come letterata, un posto in una comunità per outcasts of society lo trovo.
Subito è venuto a salutarmi un ragazzone enorme, con le sopracciglia unite e la bocca semiaperta. Si è chinato dai suoi sette o otto metri per darmi due lentissimi bacetti sulle guance e dirmi un nome che purtroppo ho dimenticato. Dopodiché devo aver stretto qualche altra mano che non ricordo.
Un tizio basso e tozzo stava seduto in poltrona con un’espressione truce da avanzo di galera, senza dire una parola per tutto il tempo. L’ho osservato, ché pareva un po’ mio zio. A capotavola, un ragazzo alla Forrest Gump sfilava un coltello dalle mani del suo vicino spastico, redarguendolo. Intanto una zelante signora trottava avanti e indietro, emanando energia e parole a macchinetta; più tardi si sarebbe messa a dar lo straccio, per poi andarsene parlando da sola.
Di noialtri, qualcuno era frequentatore abituale e sapeva come muoversi. Giacomo si dondolava sulla sedia, mezzo abbracciato a uno dei dipendenti ch’era affetto da qualche sfiga imprecisata, e ci scherzava a gran voce. E’ una benedizione sociale, ’sto ragazzo; ti fa amicizia con niente, ha già tentato di ribaltarmi un paio di volte. Studia da educatore professionale, e sarà il suo giusto mestiere, io credo.
Il chitarrista gli stava seduto accanto, con un’espressione tra l’ebete e il vuoto. Mischino, magari è intelligente, ma bisogna che si sgaggi un po’; finché non parla, continuerò a credere che non abbia nulla da dire. 
Buffo, qualcuno potrebbe aver pensato lo stesso di me, a volte.

Ad un certo punto i dipendenti si sono alzati tutti, uscendo dalla cucina; fine della pausa, immagino. Stefanino l’educatore ha colto l’occasione per riunirci attorno al tavolo e raccontarci qualcosa di quello zoo meravigliosamente assurdo. 
Ho sentito storie disastrate, di quelle che sai che esistono ma finché non le vedi restano dietro la tv, dietro un imprecisato Male Nel Mondo. Poi quando le tocchi, le abbracci, ti c’incazzi dentro, acquistano un sapore amaro che se ne fotte della teodicea.
– Una cosa di cui ti rendi conto lavorando qui, – ha detto Stefanino, – è che piove sempre sul bagnato. E’ incredibile quanto certe persone raccolgano su di sé un insieme di disgrazie che si accumulano inesorabilmente. –
Una ragazza era stata mollata dal suo tipo, così, disperata, si è sparata in testa. Solo che la pistola è scivolata, ferendola soltanto; ora le manca un pezzo di cervello, non muove bene la parte sinistra del corpo, parla male e sragiona.
Un altro si innamora di dieci ragazze in una giornata; grida i suoi sentimenti e scrive cartelli a tutto spiano. Una volta s’innamorò di una musulmana della comunità, la quale avvertì il padre, e volarono minacce di morte.
Sul muro della cucina c’era, appeso, un cartellone natalizio, dove ognuno aveva lasciato una frase, un pensiero. Qualcuno aveva scritto: non credo al Natale. E’ lo stesso che, quando cercano di attaccare la sua foto fra le altre, la prende e la strappa. Anche detto Pessimista Cosmico.
– Qui la gente che arriva ne ha subite tante che, spesso, non s’azzarda a fidarsi degli altri. Così, ogni minimo segno di perplessità da parte nostra viene percepito come un tradimento, ed è difficilissimo creare rapporti. Un conto sono i semplici, vedete la Maria Rosa, spazza e chiacchiera in continuazione, ma alla fine che puoi farci, solo volergli bene. Gli altri invece ti fanno incazzare, perché sai che “potrebbero”; sono normali, loro, perciò provi a parlargli e aprire un dialogo, a dargli l’occasione di cambiare, ma tanto questi non ti ascoltano. E allora che fai, pure loro, tocca volergli bene e basta.

“Sic transit gloria mundi”

M’ha messo un po’ tristezza, pensare che anch’io avrei risposto boh. Ma in fondo, non fa più male. Quasi.

Cinque stranezze

Hanno incastrato anche me nel giochino delle cinque stranezze che gira per blog in questo periodo… et voilà.

Il primo giocatore inizia il suo messaggio con il titolo “Cinque tue strane abitudini”, e le persone che vengono invitate a scrivere un messaggio sul loro blog a proposito delle loro strane abitudini devono anche indicare chiaramente questo regolamento. Alla fine dovrete scegliere 5 nuove persone da indicare e linkare il loro blog. Non dimenticate di lasciare un commento nel loro blog o journal che dice “Sei stato scelto” (se accettano commenti) e ditegli di leggere il vostro.

1) Guardo il mondo da circa un metro sotto la media; ne consegue che, tra la folla, dispongo di ottima visuale dei culi altrui.

2) Fischietto sempre. Fischietto qualcosa che conosco o, se sono ispirata, compongo intere sinfonie. Fischietto anche per strada, se è una giornata in cui sono particolarmente coraggiosa; altrimenti quando sono da sola – e specialmente mentre traduco una versione di latino. (Oh, ci sono tanti di quei tempi morti, sfogliando il dizionario…)

3) Soffro di sindrome da disegno compulsivo. Se ho una matita in mano e un foglio nel raggio di trenta centimetri, quel foglio smetterà di essere bianco entro breve. Si va dal ghirigoro al ritratto di chi mi sta di fronte, passando per studi vari delle mie mani e paesaggi in genere. Le conseguenze sono due: a) se rivendessi i miei libri scolastici, non me li pagherebbero una cicca – almeno, finché non diventerò una famosa artista U.U. b) quando la Garelli mi sgama, s’incazza perché sono disattenta.

4) Dispongo di tre o quattro calligrafie completamente diverse, da sfoderare all’occorrenza. Vendesi lettere minatorie per ogni necessità.

5) Ho un’attaccamento maniacale ai luoghi simbolici, legati a qualche ricordo. Sono in grado di restare ore intere a contemplare ebete un posto importante, perdendomi in conversazioni immaginarie con gente che non c’è.
No, ok, non sono schizofrenica. E se lo fossi, mi piacerebbe restarlo.

Passo il testimone ai miei cinque compagni blogger – e a chiunque altro voglia raccoglierlo!

Ore buche

[Post ad Alta Concentrazione di Ironia]*

Vorrei esprimere la mia opinione favorevole alla delibera del Collegio dei Docenti, che impone ai professori di svolgere sempre lezione, anche durante le sostituzioni in classi diverse dalle loro.

Innanzitutto non capisco l’obiezione di chi sostiene che insegnanti di altri corsi non poterbbero fare lezioni utili a quella classe, non sapendo come è stato svolto il programma fino a quel momento, e non essendosi preparati l’argomento da svolgere. In fondo, i programmi sono sempre gli stessi; e se sono uguali le nozioni da imparare, che importa chi le insegna? Il prof non è che un mezzo, uno strumento anonimo e passivo che trasferisce informazioni da una mente all’altra; se cambia il mezzo, non cambia il contenuto.

In ogni caso, una lezione qualunque, anche poco coerente, sarebbe più utile di un’ora persa in chiacchiere: ma avete idea di come vengono trascorse le ore buche?
Nella migliore delle ipotesi, se l’insegnante sa farsi rispettare, i ragazzi studiacchiano per l’interrogazione dell’ora dopo; addirittura, a volte cominciano ad aiutarsi a vicenda, e, come al solito, quelli più bravi sono assaliti da un’orda di assatanata plebaglia, che cerca disperatamente di scroccare una spiegazione o – quale orrore – di corrompere i nobili Secchioni perché facciano copiare i compiti per casa. Tutto ciò provoca un passaggio incontrollato di sapere, confuse lezioni improvvisate da pari a pari, nonché un inevitabile brusio che disturba le classi adiacenti.

Ma quello descritto finora è solo il caso più fortunato. Spesso, infatti, il pigro supplente si limita a correggere i propri compiti (o a leggere il giornale, nel caso dei peggiori mangiapane a tradimento), sprecandosi in un urletto soltanto qualora il volume della confusione superi la soglia del (suo) mal di testa. Nel frattempo, gli studenti senza controllo si riuniscono in gruppetti intorno a qualche banco, dedicandosi ad innumerevoli attività sovversive. La più gettonata è senz’altro la Chiacchiera Inutile et Rumorosa. Nella mia quinquennale esperienza, ho assistito a discorsi dei generi più vari: dal grande fratello alle disquisizioni letterarie, passando per Dio, la fecondazione assistita, il pettegolezzo contro questo o quel prof, zio Ratzy, i troppi compiti per domani, maga Magò, Berlusconi e via dicendo. 
Tengo a sottolineare che questi incontrollati scambi di idee avvengono, durante le ore buche, in condizioni ardue a verificarsi altrove: trovandosi la classe intera costretta a trascorrere un’ora nullafacente nella stessa aula, senza tanti passatempi alternativi, nascono dialoghi improbabili tra persone che fuori da scuola non si incontrerebbero mai. Lì si trovano spesso i germi di nuovi rapporti umani, pronti a infettare la disciplinata attenzione del gruppo classe.

Gli studenti tuttavia non sempre si limitano a provocare confusione di voci e d’idee col semplice chiacchierare: durante le ore buche si svolgono a volte assemblee di classe non autorizzate, in cui improvvisati capopopolo istigano la folla a sostenere progetti eversivi dell’ordine costituito! Ci si occupa, ad esempio, della complessa programmazione delle interrogazioni; o, peggio, si trama alle spalle di qualche insegnante, stabilendo misure comuni per gestire un rapporto conflittuale, magari elaborando assurde rimostranze.

Comunque, non ho ancora citato la conseguenza più grave del lassismo ormai dilagante: nelle ore buche, i ragazzi sono spesso lasciati liberi di uscire dall’aula, senza controllo né sorveglianza; in certi casi, nemmeno uno per volta. Vagano così per i corridoi come anime perse, ondeggiando ebeti attorno alle macchinette del caffè; e quando gli capita di incontrare un altro compagno errante, ecco che riprende il deprecabile chiacchiericcio, disturbatore della quiete scolastica. Se poi gli capitasse di incrociare un professore, che avesse anch’egli un’ora libera, il pargolo potrebbe finire per distoglierlo dalla correzione dei dodici chili di compiti arretrati, intrattenendolo invece in qualche inutile, personale e antipedagogica conversazione!

In conclusione, vorrei invitare gli insegnanti tutti ad applicare minuziosamente le disposizioni ricevute: quando andate in una classe scoperta, non permettete che gli studenti si mettano avanti coi loro compiti, né tantomeno assecondate il loro autonomo dialogo e l’intrecciarsi di legami amicali distraenti. Impedite loro le conversazioni incontrollate, e se addirittura tentassero di coinvolgervi in discorsi estranei alla vostra materia, rimandate a dopo l’orario di lavoro!
Non lasciate che il Fattore Umano vinca sull’Efficienza!

[Quasi quasi questo lo mando al giornalino scolastico. Hi, hi, hi.] 

————
* Nota aggiunta dopo che B. travisò completamente il senso – per la serie "anni di analisi testuale mandati a puttane" :-P (ma bella sbaaaaarbara! smac!) 

Mezz’ora

Avevo mezz’ora da aspettare, ieri, prima di quel corso. Qualche giro a vuoto per i corridoi, sessanta centesimi nelle macchinette. Poi toh, mi vien voglia di fare un salto al secondo piano. Chissà com’è diventata, quell’aula.

Mi sono affacciata nel bugigattolo vuoto degli insegnanti come dovessi salutarci qualcuno; sono passata accanto al muro su cui ci appoggiavamo chiacchierando all’intervallo – quello da dove qualcuno mi lanciò un’occhiata incredula, iniziando a camminare verso di me con le braccia aperte e l’aria felicemente allibita.
Avevano spostato le sedie, attaccato un paio di foto, scrostato qualche scritta sui muri; ma io vedevo tutto come prima, con noialtri sistemati ai nostri posti, le facce un po’ più giovani – e qualcuna in più, che ora manca. Per una volta la mia memoria ha deciso di non fallire, ed è rimasta a obbedirmi finché volevo: fa’ apparire questo, rimanda indietro il nastro, e mi sono infilata dentro un film già visto, accanto alla me stessa di qualche tempo fa.
Ho spostato lo sguardo da un angolo all’altro, liberando le voci incastrate fra i banchi; ho fatto sedere i ricordi al loro posto lasciando che giocassero la loro parte, un copione già scritto che non si può sbianchettare, è accaduto in quel tempo e non era una prova – questi spettacoli si fanno una volta soltanto, improvvisi la parte e nessuno ti spiega il finale.
Allora ho incrociato un sorrisone rosso che non vedrò forse più, mi son fatta risalutare da vecchie persone, ho riso di qualche previsione sbagliata – ché adesso lo so com’è andata a finire – e ho riascoltato una certa canzone, retaggio di un ultimo giorno un po’ triste.

Eppure c’era qualcosa di sbiadito, un’interferenza nelle sensazioni; come guardando distante, non partecipe come prima. E mentre il vento sbatteva sul vetro dicendomi è ora di andare, ho sentito allontanarsi furtiva quell’altra me stessa, coi passi leggeri di un’ombra che lentamente si stacca dal suo vecchio corpo. 

Il Sorriso Psicologico

Mia madre ha proficuamente stabilito di allevare la degna erede della sua attività politico-sociale, così mi sono infiltrata in una riunione al Comune.
Partecipanti: funzionaria distrutta e assessore timoroso, assediati da cinque genitori/parenti di altrettanti portatori di handicap (buffa, l’immagine. Te li vedi, questi, che portano l’handicap in spalla). Special guest, T., interprete del linguaggio dei segni cooptata in qualche ufficio comunale.
Scopo del gioco: evitare scempi architettonici nel nuovo centro culturale dietro casa mia.

Appena infilata sotto al tavolone, mi si è piazzata accanto una giovane capelluta sfoggiante un classico Sorriso Psicologico. Ora, tale Sorriso è caratteristica peculiare di tutti coloro che tentano forzatamente di mettere il prossimo a suo agio. Tipico degli esemplari femmina di Psicologi, Pedagogisti, Educatori e Affini, viene regolarmente estratto al primo incontro; ad esso si associano movimenti morbidi, espressione conciliante, corpo proteso verso l’interlocutore e tono suadente alla Merope Generosa.
Presentarsi così è il modo migliore per guadagnarsi la mia immediata diffidenza. Considerata la situazione, tuttavia, potevo tranquillamente trincerarmi dietro una rassicurante formalità difensiva, nonché installare un mezzo sorriso falsissimo.

T – Ciaaaaao
I – …Salve
T – Ooo ma noi ci conosciamo già sai!
I – Ehm… sì?
T – Sì sì… alla festa del volontariato, ti ricordi! E poi sai che ho letto qualcosa che hai scritto?

TUMP.
(ultimo battito cardiaco. Seguono dieci secondi di terrorizzata apnea con bestemmie anti-Google)

I – …Ah…! E… c..c..cosa? (Allarme! Allarme! Rimontate il sorriso finto!)
T – Un articolo sulla memoria, hai presente?

(Tutte le sinapsi cerebrali raccolgono istantaneamente le memorie utili. Viene deliberato che trattavasi di innocuo articolo, pubblicato sul giornalino scolastico del Santa Teresa. Si ordina ai polmoni di riprendere la respirazione)

I – AAAAAAaaaaaaaah! Eh!
T – …Ti dispiace?
I – No no… nonono! ^^ (perché, cosa te lo fa pensare? Il mio colorito viola non vuol dire nulla U.U)
T – Mi è piaciuto proprio sai!
I – Ehm… grazie!

…Dopodiché mi ha smollato un volantino, cercano volontari. Non so se ci andrò; comunque, prima faranno degli incontri aperti a tutti che non ho intenzione di perdere.

Martedì 24 Gennaio e
Martedì 7 Febbraio
ore 20.30

…andrò a sentire cosa s’inventa questa volta quell’essere imprevedibile di nome Claudio Imprudente.
Vivamente consigliato a chiunque voglia farsi quattro ghigne anticonformiste!

Cratino

Domani sera, verso le nove, starò dietro le quinte di un palco rimuginando sulle mie quattro battute nei panni di Cratino – e il nome è tutto un programma – in attesa di rendermi pubblicamente ridicola.

Lo spettacolo è carino, il mio ruolo del tutto demenziale; e nonostante una parte di me si vergogni un po’, sento che demolire così spudoratamente la mia dignità mi fa bene, in qualche modo. Insegna a prendersi meno sul serio.  

[E non rompetemi l’anima, voi. Lo so che la Licia non piace a tutti come regista, che certi spettacoli sono riusciti peggio e altri meglio, che a volte, forse, ci tratta un po’ come bambini; chi cercava la partona drammatica stillante pathos da ogni battuta ha sbagliato gruppo teatrale. So anche che il significato è andato perdendosi, che nel copione c’è una frase palesemente contraddittoria a livello… ehm.. filosofico e nessuno se n’è accorto, e che di sicuro c’è di meglio.
Però, al momento, non me ne frega niente. C’è pure di peggio; questa è una buona esperienza – a livello teatrale, ma anche umano – e non ho intenzione di fare la schizzinosa. Vorrei, semplicemente, divertirmi un po’.
]  

 

Mi va di sperarlo

"Ci sono alcuni miei studenti che mi hanno fatto vedere i loro blog. Sono rimasto veramente molto colpito dall’intensa poesia che emana dalle loro pagine. Frasi bellissime, mai lette in alcun libro, idee meravigliose, diari strazianti di amori e passioni. E alcuni di loro non vanno neanche tanto bene a scuola, anzi dalla maggior parte degli insegnanti sono considerati ottusi o insensibili. Poi mi sono messo a guardare i siti degli insegnanti e alcuni loro blog. Mi chiedo ma chi sono sono gli insegnanti e chi sono gli studenti? i siti degli insegnanti (oltre ad essere veramente brutti) sembrano creati da uno che si è appena fatto un acido…sono pieni di odio, di gelosia, di discorsi politici senza senso, di cazzate insomma…"

Questo l’ho pescato in un newsgroup di insegnanti.
Ora, in effetti non è vero. Ogni tanto sbircio l’attività blogghico-letteraria di qualche prof beccato in rete, e c’è veramente di tutto, dal deluso all’idealista, dal rassegnato incazzoso all’ironico impegnato. Così come c’è di tutto fra i blog di noialtri, qualcuno posta solo canzoni biecamente copiaincollate, altri sbrodolano chilometri di problemi esistenziali o filosofeggiano; c’è chi scrive come parla, chi balbetta quattro frasi infarcite di kappa e chi perde mezz’ora a controllare se le sue dodici subordinate suonano in modo abbastanza poetico.

Qualche anima profondissima ha risposto scetticamente – per la serie tsk guarda che hanno scopiazzato tutto, ché non sono in grado di scrivere cose sensate – ‘azzo, bello avere tanta fiducia negli studenti.
Ecco, a onor del vero bisogna dire che it.istruzione.scuola pullula di frustrati che dicono di odiare il proprio lavoro, i presidi, gli studenti, Berlusconi, i comunisti, la nebbia e il governo ladro che fa sempre piovere; e considerando che su free.it.cattolicesimo il partecipante più attivo appartiene a una setta neopagana, deduco che il mondo dei newsgroup non sia necessariamente rappresentativo della realtà.
Almeno, mi va di sperarlo.

I puffi rotanti mi comprendono

I – Prof sa che ho dovuto lottare per andare in gita senza accompagnatore?
D – Coi tuoi?
I – No no, i miei son d’accordo, con la preside
D – Beh sì dai, ci sono i compagni…
I – Eh ma sa, hanno tutti paura delle responsabilità…
[Ci ha pensato un po’, ondeggiando il suo testone. Poi ha annuito, serio]
D – Hai fatto bene. Hai fatto bene

[Pare che io l’abbia vinta, questa battaglia – anche se non ci crederò finché non sarò lì davvero. 
A volte ho l’impressione di essere un po’ sola contro i miei mulini a vento, ma forse è così che deve essere, ché solo io posso sapere come e cosa argomentare, sono un’ottimo avvocato di me stessa. Però, l’altro giorno in classe, con la Gras che strippava i suoi t’arrangi e l’Ele che le rispondeva a tono, con gli altri che avevano capito, m’è sembrato che qualcosa mi si stringesse attorno. E forse, stavolta, ho vinto un po’ di più.]