Arca – II parte

– Tu e la Vero andate lì alle calotte; Vero, spiegale come fare.
Abbiamo raggiunto i lavoratori nel capannone; era zeppo di scatoloni, tubi, carrelli elevatori e colorato disordine. Gli operai gironzolavano attorno ai quattro lunghi tavoli centrali; mi sono piazzata in quello più vicino, dove un apposito contenitore riversava vagonate di pezzi plasticosi da assemblare. La mia compagna ne sapeva meno di me, così ci siamo rigirate fra le mani i componenti per un po’, finché non è arrivata Maria Rosa a elargirci sommarie spiegazioni – nonché a iniziare il racconto della sua biografia.
Mi stavo applicando alle calotte, quando un ragazzo barcollante è venuto a svuotare la casse dei pezzi completati, accanto a me. Poi s’è sistemato nella postazione accanto alla mia.
– C-c-ciao, sono Cristian!
Non so esattamente come si scriva; ma tanto per me non lo sapeva nemmeno lui, quindi non è un problema.
– E’ m..m..meglio che li metti così, guarda – m’ha detto, cominciando a tirar fuori i pezzi uguali, mettendoli in fila. – Ce…Ce li metti tutti e poi metti gli altri, così. Capito?
Ho visto una mano contratta montare i tutti secondi componenti sui primi messi in fila, quindi i terzi sui secondi, in stile catena di montaggio. Considerando che avevo passato i dieci minuti precedenti a completare ogni tubo uno per volta, m’è sembrato di essere un po’ stupida. E deve esser sembrato anche a lui.
– Ok, f..facciamo ch…che tu me li metti solo in fila e io li… li monto… capito?
Capito.

Mi sono un attimo spostata per avere più spazio di manovra; – Guarda che non mi davi fastidio, – m’ha detto, e mi ha messo i freni. Generalmente detesto queste cose, ma quella situazione non poteva rientrare in nessun generalmente.
– Lo… lo so fare per… perché v..vado all’aias a dare una mano ogni tanto! – mi ha spiegato. – Li por..porto in giro!
Aias, aias. L’avevo già sentito, questo nome. Aah, gli spastici. Sì, lui è spastico, quindi va all’aias. ’Spetta, però, a dare una mano? Ma se lui è spastico, gli altri dovrebbero dare una mano a lui e non… In questa conversazione c’è qualcosa di ribaltato. Mi sto perdendo.
– Tu ci…ci vai all’aias? – m’ha chiesto, vagamente apprensivo. – Hai d…degli a…amici?
Lo sapevo. C’è qualcosa di sempre più ribaltato. Non era lui a dovermi fare queste domande.
– Ehm, no, all’aias no. Però esco spesso con gli amici di scuola.
– Scuola? V..vai a scuola?
– Sì, faccio lo scientifico – gli ho risposto, con una specie di becero orgoglio. Mi venne in mente Nati due volte, dove l’autore descrive le madri di figli disabili che s’affannano a pubblicizzare le abilità residue dei pargoli, gareggiando a MioFiglioE’MenoDisabileDelTuo.
– Eh? – borbottò. Mi resi conto che non capiva.
– Beh… sì, si studia… tipo.. italiano, matematica… queste cose – ho spiegato. Lui mi ha quasi riso in faccia, tra il divertito e l’interdetto:
– Ma… non vai a lavorare?

Più tardi è passato un tipo dall’aria incazzata, a riempire gli scatoloni da cui prendevamo i componenti. Ha rovesciato la sua frana di affari di plastica, indirizzando a Cristian un gratuito “non rompere le palle”, ed è andato via. Cristian è rimasto zitto a fissare il vuoto, come raggelato. Poi ha abbassato la testa, e ha ripreso a montar calotte; ma ora si sbagliava spesso, così glieli aggiustavo di nascosto.
Rapidamente riempivamo casse di pezzi completati, e ho cominciato a chiedermi quanti diavolo di impianti di irrigazione esistano al mondo. Quei cinque o sei dipendenti trasognati – che lavoravano con la musica accesa a sottofondo, e potevano chiacchierare o fermarsi quando volevano senza essere redarguiti – stavano otto ore al giorno a fare la stessa identica, stupida cosa, producendo un’infinità di piccoli tubi per irrigatori, che poi vendevano sul serio.
Io, tempo un’ora e mezza mi sentivo già profondamente partecipe dello scontento degli operai ottocenteschi, sfruttati dodici ore al giorno in catena di montaggio. Che gioventù smidollata.
– E io sto…sto qui da stamattina eh! – ha sorriso lui, però non sembrava tanto dispiaciuto. Stefanino dice che quella è l’unica azienda in cui, quando si chiude, i lavoratori piangono.

Poco prima delle cinque è arrivato un omone allegro a diffondere nel capannone il suo potente accento toscano. Ha salutato un po’ tutti, Firenze, scherzando qua e là con noi e con gli operai; poi li ha raccattati sul suo furgone, per riportarli chi a casa, chi in qualche comunità o ospedale.
I miei compari andavano verso l’autobus, io aspettavo mio padre, in ritardo come al solito. Sono rimasta a gironzolare per la fabbrica vuota, accorgendomi di qualche dettaglio che m’ero persa. La parete in fondo era ricoperta delle foto di tutti quelli che c’erano passati – chissà, forse mancava quella del tizio che prende le sue foto e le strappa. Vicino all’entrata c’era un angolino con altre foto, il vecchio Papa, un ripiano con due statuette africane e delle piccole pietre in fila, a formare una strada. In alto, sul soffitto, qualcuno aveva dipinto una specie di grosso affresco a tema biblico. Ora non ricordo bene cosa fosse. Forse, un’arca di Noè.