Ci vediamo nel tuo disegno – 5

Giorgia ha salutato tutti col suo abituale fiume emotivo, senza schermi e senza riserve. M’è tornato in mente quando mi vide per la prima volta e mi abbracciò, così dal nulla, solo perché era il mio compleanno. O quando era ora dello svuoto – il cateterismo – e mi impedì di andarmene, dicendo che non le importava di spogliarsi di fronte ad altri. Poi si fece coprire perché aveva notato che stavo fissando insistentemente il mio cellulare, fingendo di scrivere un messaggio lunghissimo per non doverla guardare.

– Ci sono persone qui con cui magari non è che mi sono confidata chissà quanto – diceva a una signora che era venuta a salutarla – ma non importa, si è creato come… un filo, un filo, vedi, come tra noi due – la signora annuiva decisa – o come con questa ragazza che è veramente…
Ho fatto in modo di cambiare argomento prima che quella ragazza si sentisse troppo in imbarazzo. Mi sono accorta che ci stavamo tenendo la mano.

Altre persone sono venute a scambiarsi telefoni e speranze. Piovevano auguri di guarigione, di rivedersi, la prossima volta, da in piedi. Giorgia mostrava orgogliosamente di poter muovere un piede, rivendicava miglioramenti alle mani non previsti da quei menagrami dei medici.
Siccome lo dicono tutti i pazienti, non ho ancora capito se sono loro che deformano la realtà per darsi speranze, o i medici che fanno regolarmente previsioni al ribasso per mettere le mani avanti.

Mancava un quarto d’ora all’orario di chiusura dell’ospedale, quando ci avrebbero mandato via. Io aspettavo e le tenevo la mano.

Finalmente ha preso il biglietto coi miei contatti e il P. S., tenendoselo a distanza per riuscire a vederci, e l’ha letto ad alta voce.
– “Pi Esse: Ricordati che sono prigioniera delle parole: ci vediamo nel tuo disegno”…
Giorgia ha riso d’affetto e ha detto qualcosa di tenero. Quando se n’è andata anche l’ultima visitatrice, le sono saltata sul letto per riuscire ad abbracciarla.
– …Sono proprio contenta di averti conosciuto – le ho detto.
Sapevo che non avrei saputo dire granché. Avrei voluto dirle che credevo che sarebbe riuscita ad essere felice, un giorno. Che avrebbe costruito un ponte su quel buco che ha dentro e sarebbe arrivata dall’altra parte sana e salva.
– Anch’io – ha risposto, poi mi ha abbracciato sbaciucchiandomi come faceva mio padre.

Ma non gliel’ho detto, che sarebbe riuscita ad essere felice, perché non ne ero del tutto sicura. Perché nella mia voce forse avrebbe sentito un tono di dubbio, una scheggia di paura.

Quando sarò a casa non vorrò vedere nessuno. Mi chiuderò in camera col mio pianoforte, e piangerò.

Avrei anche voluto dirle che mi sarebbe piaciuto conoscerla in un’altra circostanza, senza che fosse così ribaltata dalla sua personale tragedia. Così sarei stata io a raccontarle la mia vita, e mi sarei fatta spiegare come si fa a essere bambine senza aver paura.

Sai, quando mia sorella era piccola le dicevo che il cielo stellato era una magia. Solo che un giorno c’erano le nuvole, e lei mi chiese ma come, oggi la fatina non ha fatto la magia?

Sono scesa dal letto e le ho augurato buon viaggio. Ho baciato sua madre e suo marito, li ho salutati di nuovo, ho aperto la porta, mi sono voltata ancora.

– Ci vediamo nel tuo disegno!