C’era un pastore a braccia conserte

[Il presepe non l’ho fatto io, ci pensa papà. Così, ho pensato mi sarei divertita di più a scriverne uno un po’ eretico]

C’era un pastore a braccia conserte, quella notte, stava un po’ distante e guardava di sbieco la folla laggiù, solo un’occhiata ogni tanto, per non rischiare di credere. Sapeva che, se si fosse avvicinato, avrebbe creduto; gli era successo tante volte. Il pastore aveva bisogno di una speranza, e credeva sempre a chi gliene offriva una.
Ma si sentiva un bambino. Non si può trasformare un bisogno in verità, solo perché ci piacerebbe: aveva deciso che, ormai, a lui importava la verità. Perciò non voleva avvicinarsi e cadere di nuovo in trappola; eppure non riusciva nemmeno ad andarsene. Era bello sentire il brusìo e le domande, partecipare alla vibrazione collettiva di un’attesa, lasciarsi stuzzicare dall’incertezza.
– …città di Davide un salvatore, che è il cristo signore…
– …un angelo… gloria a Dio nell’alto…
Minchiate. Ecco, il pastore captava le frasi che sfuggivano ogni tanto alla confusione, e pensava che in un’ora i suoi compaesani erano già riusciti a creare un mito. Questo gli dava fastidio, e gli faceva venir voglia di andarsene del tutto: c’era già un muro di schiene, di racconti e certezze presuntuose tra lui e quella cosa in fondo, che non riusciva a vedere. Nessuno, gli pareva, stava con lui a lasciarsi coccolare da un prudente dubbio, ad aspettare di capire: loro avevano visto l’angelo, certo, la luce, la musica e magari un asino in volo acrobatico sul deserto; allora erano accorsi senza indugio.
Lui invece era già lì, era lì da tutta la notte, e non aveva visto un bel niente.

Sapeva che quei sempliciotti erano fantasiosi; bastava poco, uno stupido evento qualunque un po’ diverso dalla prevedibile routine, che loro s’inventavano qualche storia per rompere la noia. Come passare le nottate attorno al fuoco, altrimenti?
Fece due passi lì attorno, per sgranchirsi, e diede un calcio a una brace spenta rimasta da un vecchio falò. Sorrise tra sé, ripensando che qualche giorno prima aveva fatto lo stesso con un maledetto pezzo di carbone che però era ancora acceso, così s’era pure scottato. Solo che l’aveva lanciato contro degli arbusti secchi; erano le due del pomeriggio, c’era il sole a picco, e quelli lentamente presero fuoco. Mentre si allontanava, aveva sentito odore di bruciato e si era voltato indietro; allora aveva visto dei ragazzini che bivaccavano lì attorno correre via spaventati, gridando qualcosa a proposito di Dio, Mosè e un cespuglio incendiato.
Il pastore ridacchiò al ricordo e si sdraiò, le mani dietro la nuca – tanto, non c’era modo di vedere oltre la folla che lo divideva da quel qualcosa laggiù. Non era molto alto, lui. Preferiva stendersi a guardare quel profondissimo cielo di notte, di fronte al quale non soltanto lui doveva sentirsi piccolo, ma anche quei creduloni presuntuosi che si accalcavano di là. Non c’è bisogno di inventare angeli per stupirsi di qualcosa, pensò. Basterebbe chiedersi cosa diavolo sono quei puntini bianchi che illuminano la notte, per avere domande sufficienti a impiegare una vita intera.
Era incuriosito dal cielo notturno. Una volta aveva incontrato un mercante orientale che gli aveva spiegato diverse cose sui movimenti delle stelle. Aveva anche previsto per quel periodo il passaggio di una stella speciale, con una specie di piccola coda luminosa; diceva che non era la prima volta e che sarebbe successo ancora. Il pastore da qualche giorno la stava cercando nel cielo; non sapeva bene dove guardare, né a che ora; però aspettava e cercava.

– Una coperta, una coperta per una donna…
– …bambino…
D’un trattò sentì passare tra la gente una fibrillazione nuova; si passavano parola chiedendo aiuto per qualcuno. Una donna, dicevano? Il pastore si alzò e s’avvicinò a un giovane che correva da una persona all’altra.
– Che succede?
– Avete un panno, un mantello, c’è una donna che ha partorito e serve qualcosa per coprirli…
– Ce l’ho io, arrivo – rispose al giovane, e scuotendo la testa si diresse verso il suo giaciglio. Dunque era così, semplicemente! Altro che angeli; erano accorsi tutti solo per aiutare una donna a partorire! Il pastore sospirò, chiedendosi chi mai avesse sfruttato l’occasione per spargere le solite leggende… si approfitta perfino di un bimbo che nasce per stare un po’ al centro dell’attenzione!
Prese la coperta e tentò di farsi strada tra le persone e gli animali che s’erano portate dietro. Notò che molti guardavano nella stessa direzione, indicavano, parlottavano fra loro. Mentre avanzava si sentì strattonare per un braccio; un vecchio l’aveva afferrato e lo fissava con sguardo vitreo, rantolando quel bambino, quel bambino…; dovette scrollarselo di dosso a forza per poter andare avanti. Giunto verso le prime file, inciampò in un uomo inginocchiato, e imprecò gridandogli che poteva anche darsi da fare, invece di restarsene ebete a ostruire il passaggio. Scavalcàti anche gli ultimi che s’affollavano all’entrata della stalla, si scontrò con la mano tesa di un uomo.
– Dà a me, grazie – disse quello, senza guardarlo. Il pastore lo osservò un momento: era sudato nonostante il freddo, aveva occhiaie profonde, nell’altra mano teneva un secchio d’acqua e sulla spalla un panno sporco. Dava occhiate rapide a un angolo appartato della mangiatoia; da là venivano un pianto di neonato e alcune voci femminili. Il nostro tentò di sporgersi oltre la spalla che gli si parava davanti, ma non riuscì a vedere nulla.
– Dà a me – ripeté allora l’uomo, con voce ferma. Stavolta lo guardò negli occhi. Dietro di lui comparivano e scomparivano un paio di donne che armeggiavano chine su qualcosa. Un altro tizio stava spingendo via un curioso troppo invadente.

Il pastore gli porse la coperta, senza smettere di guardarsi attorno.
All’improvviso si ricordò che aveva deciso di non avvicinarsi, e ne fu spaventato. Forse ora gli sarebbe accaduto di credere. Sarebbe diventato ebete come quel rincoglionito che stava in ginocchio davanti a lui, e avrebbe iniziato a ignorare il buon senso per rincorrere favole. Avrebbe afferrato la gente per un braccio fissandola con aria spiritata e profetando fesserie; avrebbe cominciato ad avere paura di tutto, perché in ogni roveto incendiato per caso poteva nascondersi Dio.
Fece qualche passo indietro, mescolandosi con la folla. Lo raggiungevano ancora spezzoni di racconti:
– …non temete…
– …annunzio una grande gioia.
Pensò che sarebbe stato bello non temere. A volte, mentre si lasciava risucchiare dal cielo profondissimo di una notte limpida, gli capitava come d’accorgersi di esistere, ma non come l’erba o le pecore che nascono crescono muoiono e non rimane niente; gli pareva d’esistere più come le stelle, forse ancora meglio delle stelle, un’esistenza che dura da sempre e per sempre per qualche ragione incomprensibile e lontana, una ragione immensa di cui lui era parte in qualche modo, ma che di lui era più grande ancora, perché non la comprendeva.
Il pastore non avrebbe saputo spiegare a nessuno questa sensazione. Sapeva solo di perdersi per un attimo immenso in una specie di profondo vuoto, come cadendo all’infinito in un pozzo senza appigli.
Tutto ciò non gli faceva esattamente paura – si sentiva comunque grande e potente – ma nemmeno lo rincuorava. Di certo non era una grande gioia, piuttosto un’inquietudine tormentata.
La gente attorno a lui, invece, sperava. Non sapeva ancora cosa sperare esattamente; forse sperava cose sbagliate, però si aspettava una grande gioia. Se l’aspettava da un bambino di cui s’era sentito solo il pianto, nato in una notte qualsiasi lì quel buco di stalla, con un padre scontroso e ammaccato a difenderlo sulla soglia, e qualche decina di pastori e curiosi accorsi senza apparente ragione.

Anche il pastore per un momento ebbe voglia di sperare. Di gettarsi insensatamente in quella scommessa ingenua, nell’illusione collettiva; così, senza un motivo particolare, solo per lasciarsi andare e commuoversi, solo perché ne era attratto come da un innamoramento.
Ma ne aveva paura, perché sapeva che l’amore – anche questo tipo di amore – rende sempre un po’ ciechi; fa vedere, della realtà, solo quel che conferma le speranze e le idealizzazioni. Lui, invece, aveva bisogno della verità.

Si allontanò lentamente, dando un’ultima occhiata a quella mangiatoia e alla gente che si tendeva per vedere. Aggirata la folla, gli si allargò il cielo davanti e gli cadde lo sguardo su una stella diversa, proprio come gliel’aveva descritta il mercante. Sorrise di averla trovata così, per caso. Pensò che i creduloni di là le avrebbero affibbiato chissà quale senso particolare; un segno, avrebbero detto.
Invece lui sapeva che c’era la stella perché era previsto, era già accaduto e sarebbe accaduto ancora. Si sdraiò per terra a guardarla, dicendosi che, anche così, di quel loro esistere non aveva capito granché.