Noi occidentali non c’abbiamo proprio un cazzo da fare

Da un paio di giorni vivo in Afghanistan. Sono arrivata in ritardo a una festa dall’Ele perché quell’afghano emigrato in America doveva sposarsi. Stamattina mi sono svegliata alle nove e mezza, ma non sono riuscita a far colazione perché scaldare il latte mi avrebbe rubato troppo tempo – dovevo assolutamente sapere cosa voleva il vecchio Rahim Kahn. Dopo vent’anni all’estero sono tornata in una Kabul distrutta, senza più ricordi da riconoscere, trovando la mia casa ormai in rovina e occupata da altri. Non si fanno più tornei di aquiloni, in città.
A mezzogiorno mi sono resa conto che se non avessi riempito il buco nello stomaco sarei svenuta, così a malincuore ho raggiunto la cucina. Seduto al tavolo c’era un bambino dal viso tondo, i cui occhi a mandorla avevano visto la nefandezza umana in tutte le declinazioni possibili. Dal corridoio ho visto affacciarsi un talebano barbuto; lanciava sguardi minacciosi verso un uomo massacrato dalle botte e dal senso di colpa, che piangeva lì appoggiato sulla lavatrice. Non avrebbe più potuto chiedere perdono al suo vecchio amico d’infanzia, perché questi era stato ucciso con un colpo alla nuca.
Versando il latte nella tazza, ho aperto il Carlino trovato sul tavolo. Titolo a otto colonne: "Ma quali tacchi a spillo, sono un pedagogo". La lettera dell’insegnante che entrò in classe vestito da donna.

Ma vaffanculo.

[Comunque quel romanzo è una droga]