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Quando oddio ma fa schifo, non doveva essere così.
Quando l’assistente della stazione ci guardava sorridendo di tenero compiacimento.
Quando qui in piazza davanti a tutti, perché io non mi vergogno.
Quando allora quando cazzo finisce ‘sto film, dài che…
Quando chissà dopo quanto tempo devo smettere?
Quando ormai ci ho fatto l’abitudine, ma è così tenero…
Quando non è possibile, sta succedendo davvero.

[Un anno]

Ora

A volte, scherzando con me stessa, penso che il 21 dicembre di un anno fa sono davvero scivolata giù da una discesa ghiacciata, rompendomi l’osso del collo.
E tutto quello che è venuto dopo – un appassionante crescendo di tentativi riusciti – non è che un magnifico aldilà. Niente nuvolette e luci bianche, ma un sogno molto realistico, dove si lotta come nella vita normale, però alla fine si riesce sempre. E forse una felicità così sarebbe ancora più soddisfacente, perché non si saprebbe di averla per dono divino, ma si penserebbe di averla costruita da sé.

So che non andrà così per sempre. Ci penso quando passeggio sul vialetto di quella casa magnifica che non è mia, e da cui, prima o poi, sarò costretta ad andarmene. Non ne troverò mai più una altrettanto bella. Anche se un giorno riuscissi ad avere di nuovo un giardino, e altri vicini da cui prendere il tè, non sarà mai il monolocale della prima volta, di molte prime volte.

Arriverà anche il momento in cui non potrò più dormire con qualcuno nella totale, rilassante leggerezza di non avere altri ricordi in mezzo. Ora posso dormire senza nemmeno un briciolo di rimpianto, senza nessuna nostalgia perché non c’è stato nessuno, prima, meritevole di nostalgia. Questo tempo invece, comunque andranno le cose, mi mancherà.

Finirà, probabilmente, anche la smania di provare e la libertà di poterlo fare. Arriveranno dei limiti, li metterà la noia zitta zitta, senza farsi accorgere, o forse lo faremo noi, per proteggerci, o forse ancora qualcuno mi costringerà, prima o poi, a fare una scelta. Adesso invece tutto è così possibile, e contemporaneamente.

Tra poco parteciperò alla breve pantomima familiare della cena natalizia, asciutta e silenziosa. Starò naturalmente molto attenta a nascondere la mia felicità, e i miei genitori staranno attenti a nascondere di conoscerla già.
Può darsi che un giorno, finalmente, non mi vergognerò più, e avrò voglia di fargliela sapere. Ma so che per allora, forse, sarà passato anche il tempo in cui potevo farlo.

Ma ora non ci penso, sforzandomi soltanto di prolungare questo ora un altro po’.

Cosa facciamo noi a letto


(Surrealismo)


(Momento splatter)


(All’attaccoooooo!)

23° anno

  • Fare sesso
  • Abitare da sola
  • Fidanzarsi
  • Laurearsi
  • Innamorarsi
  • Iscriversi a una nuova facoltà, stavolta quella giusta
  • Sperimentare i desideri

Obiettivi raggiunti.

[Non male, no?]

Consolazioni

Io penso che soffrirò sempre per la nostra diversità, per il fatto di non condividere molti interessi, e perché una parte di me resterà inesorabilmente sola nei suoi discorsi.

Ma amo così tanto il modo in cui mi consoli di queste cose, che potrei soffrirne volentieri, pur di farmi abbracciare, dopo.

Compromessi

“Il punto non è ottenere esattamente ciò che vogliamo. Il punto è essere abbastanza adulti da saper plasmare ciò che vorremmo su ciò che abbiamo.
Se c’è un momento, nella vita di una persona, in cui si passa dall’età adolescente all’età adulta non è la prima volta in cui si fa sesso, non è la patente, non la prima sbronza non il primo ti amo, non il primo cuore spezzato. E’ il momento in cui, pur rendendoci conto di non poter avere esattamente ciò che vogliamo, proseguiamo per la nostra strada senza rinunciare al nostro sogno, ma modificandolo al punto di renderlo fattibile. Essere adulti, per me, significa questo. Scendere a compromessi con se stessi, senza pensare che sia denigratorio, sbagliato o umiliante.”

(tratto da places that pull)

Mattina

sole al pilastro
(Se questa è incuria)

Il bravo storpio – 2

“La gente non soltanto si aspetta che tu reciti la tua parte, ma anche che tu sappia stare al tuo posto. Per esempio, mi ricordo di un tale che incontrai in un ristorante di Oslo. Era gravemente invalido e aveva lasciato la carrozzina per salire su una scala abbastanza ripida su fino alla terrazza dove si trovavano i tavolini. Siccome non aveva l’uso delle gambe, doveva trascinarsi sulle ginocchia. Appena cominciò a salire le scale in quel modo insolito, i camerieri si precipitarono verso di lui non per aiutarlo, ma per dirgli che non potevano servire una persona in quelle condizioni in quel ristorante dove la gente andava per divertirsi e non per rattristarsi alla vista degli storpi.”

Personalmente ho salito le scale nei modi più ridicoli, e tuttavia nessun cameriere mi ha mai rotto le scatole – ma forse non frequento locali abbastanza chic.
In ogni caso, l’esempio riportato da Goffman è utile a ricordare che l’accettazione va bene, ma solo fino a un certo punto. C’è un limite oltre il quale non si può andare.

“Credo di essermi resa conto della mia situazione quando ero andata con un gruppo di ragazzi miei coetanei sulla spiaggia. Ero sdraiata sulla sabbia e credo che gli altri pensassero che dormivo. Uno dei ragazzi disse: “Mi piace molto Domenica, ma non uscirei mai con una ragazza cieca”.”

Il bravo storpio, quindi, deve comportarsi come se si sentisse normale, dev’essere a suo agio e tollerante, ma non pretendere troppo. Finché non si spinge troppo oltre, le sue strategie funzioneranno e potrà vivere come se fosse accettato.
Ma se chiede più di quanto gli è concesso, l’accettazione si rivelerà per quel che è: un'”accettazione fantasma“.

C’è poi un altro punto oscuro, su cui Goffman si sofferma solo rapidamente. Per ostentare un buon adattamento, e averne i conseguenti vantaggi sociali, lo stigmatizzato può essere costretto a negare i lati più tristi della sua esistenza.

Quando ho letto La terza nazione del mondo, un saggio sulla disabilità, sono rimasta infastidita dalla visione ossessivamente pessimista dell’autore. Non faceva che ribadire che i disabili integrati sono pochi, e che non bisogna lasciarsi ingannare dagli esempi eroici forniti da qualche lacrimevole vita in diretta, perché le difficoltà oggettive sono tante e le persone scoraggiate.
Mi innervosiva. Leggendo, sentivo l’impulso di fornirgli una lista di efficienti soluzioni pratiche atte a rendere comunque desiderabile qualsiasi tipo di esistenza. Mi dava fastidio, mi dava così fastidio che ho iniziato a chiedermi come mai.
E mi sono risposta che, forse, è perché sono proprio una brava storpia.

Ovvero, ho assimilato quasi tutte le strategie di cui al precedente post, le pratico regolarmente e questo mi fa sentire davvero a mio agio. Cioè, non è che fuori fingo, poi torno a casa e piango. No no. Sono proprio convinta di sentirmi a mio agio, sul serio. Penso che si veda anche da fuori.
Ma quando sei uno con un buon adattamento, diventa difficile gestire le difficoltà che prima o poi saltano fuori, piccole o grandi, che ti riguardino direttamente o che trovi solo citate in un saggio di sociologia.

Perché se ammetti che c’è un problema, anche una piccola cosa che ti disturba, sai che il normodotato medio potrà collegarla inconsciamente alle sue immagini tragiche relative agli stigmatizzati, e ingigantirla. Potrebbe iniziare ad avere pietà, sentirsi in colpa perché lui sta meglio, o sinistramente goderne. Potrebbe dubitare della tua reale vicinanza al gruppo dei normali, mettendo istintivamente una distanza tra te e lui.

Se un normale esprime una difficoltà, relativa a qualche aspetto della sua vita, riceverà una comprensione proporzionata. Lo stigmatizzato sarà compreso non solo in quel che ha detto, ma anche in tutto quel che l’interlocutore immagina su di lui – quindi, non sarà compreso, sarà frainteso.
Naturalmente non è detto che vada sempre così, ma cioè non toglie che lo stigmatizzato sa di doversi confrontare con questo rischio, ogni volta che si mostra più debole. E questo può dissuaderlo dal mostrarsi fragile.

Il bravo storpio – 1

“Ho imparato che gli storpi debbono stare attenti a non comportarsi in modo diverso da quello che gli altri si aspettano da loro. Prima di tutto, la gente si aspetta che lo storpio sia… storpio.”

E’ una citazione riportata da Goffman nel suo Stigma, un saggio pubblicato abbastanza tempo fa perché non fosse costretto a usare noiose perifrasi politically correct. Storpio è molto più divertente.

Non so se l’avete notato, ma con questa frase, forse, vi ho strappato un sorriso. Qualcuno starà pensando che chi parla di un handicap – di uno stigma – con tale leggerezza, beh, è a suo agio con la propria diversità, ha elaborato una strategia vincente per conviverci. E anche voi vi sentite più a vostro agio nel comunicare con uno “stigmatizzato” – per usare la terminologia del saggio citato – che mostra questa sicurezza. Vi sentireste peggio con un vittimista, o con uno che vi accusasse di mancanza di tatto.

Esiste, allora, una certa immagine “rassicurante” dello stigmatizzato. Goffman ne definisce alcuni tratti:

  • considera se stesso un essere umano come tutti, che ha solo qualche limitazione pratica;
  • si sforza di fare il massimo che la sua limitazione gli consenta; ma senza esagerazioni patetiche, per non sembrare uno che voglia negare i propri limiti;
  • non fa la vittima;
  • non si arrabbia se i normali si dimostrano superficiali o involontariamente offensivi, perché capisce che fanno così solo per ignoranza o imbarazzo. Quando succede, anzi, li rassicura, e gli spiega con calma come stanno le cose.

Sull’ultimo punto c’è qualcosa da aggiungere. Il bravo stigmatizzato, maturo e consapevole di sé, non solo è tollerante, ma si mette d’impegno per ridurre la tensione dei normali nel rapportarsi con lui. Lo fa attuando precise strategie, come scherzare sul suo stigma, o accettare l’aiuto offertogli anche quando è inutile, sapendo che questo gratifica il normale e lo mette più a suo agio.

Se lo stigmatizzato riesce a comportarsi secondo questi parametri – stabiliti dalla società – è probabile che sia, effettivamente, più accettato. Goffman non mette in dubbio che queste siano davvero strategie utili per vivere meglio. Può funzionare: far sentire meglio il normale fa sì che questi si relazioni più tranquillamente con lo stigmatizzato, il quale quindi sarà a sua volta a proprio agio.

Il primo punto interessante da notare, secondo me, è che finalmente queste strategie vengono considerate per quello che sono, ovvero un adattamento alle richieste della società. Non una dimostrazione di particolare saggezza, maturità o doti morali. Scrive un cieco:
“Il non credere che il desiderio di continuare a vivere possa scaturire da motivi molto banali è molto frequente, tanto che, come difesa contro di esso, si sviluppa automaticamente una razionalizzazione per spiegare il proprio comportamento. Si sviluppa una “filosofia”. Sembra che la gente insista sul fatto che tu hai una filosofia e scherzi quando dici di non averla. Così fai del tuo meglio per contentare gli estranei che incontri, che vogliono sapere cos’è che ti fa continuare.
Hai un’intuizione davvero insolita se riesci a renderti conto che la tua filosofia è raramente una tua creazione, ma in realtà un riflesso della concezione che il mondo ha della cecità.”

Il secondo punto interessante è che dietro l’apparenza del bravo storpio, felice e accettato, può nascondersi molto altro.

[…continua…]

E vedere cosa succede

Sono un po’ affascinata dalla piega che può prendere la vita, sapete. Così, imprevedibile. Sono nella mia vecchia stanza, sotto i fili con appese cartoline e foto di millenni fa.
Mi guardano tutte un po’ stupite.

Mi sorride la barchetta piena di uomini che mi regalarono per scherzo, quando di uomini non ne avevo nessuno; decine di conigli di ogni foggia posati ovunque a impolverarsi, regali di papà alla sua sempre bambina; i libri di scuola, tenuti per feticismo della memoria, o magari per usarli un giorno in un’altra scuola e invece poi.

Oggi guidavo piano, accompagnando un vitale groviglio di tentativi -- riusciti, malriusciti, in itinere. Regalavo storie, la mia consueta mitologia aggiornata in versione epica; e ne ascoltavo altre, buone per il mio voyeurismo biografico -- e per sentirsi un po’ meno diversi.

Penso ancora, in sottofondo, alla disarmante casualità che mi governa. Alle possibilità che ho, ma potrei non avere. Che altri non hanno. E che le cartoline appese ai fili, senz’altro, non avrebbero mai immaginato.

Ma vince l’istinto, maledizione. Vince la voglia di giocarsele tutte, queste fantastiche, immeritate possibilità.
E vedere cosa succede.

[…and I swear I never knew, I never knew how it could be / and all this time, all I had inside, was what i couldn’t see… all the waves are washing over / all that hurts inside of me]