Il bravo storpio – 2

“La gente non soltanto si aspetta che tu reciti la tua parte, ma anche che tu sappia stare al tuo posto. Per esempio, mi ricordo di un tale che incontrai in un ristorante di Oslo. Era gravemente invalido e aveva lasciato la carrozzina per salire su una scala abbastanza ripida su fino alla terrazza dove si trovavano i tavolini. Siccome non aveva l’uso delle gambe, doveva trascinarsi sulle ginocchia. Appena cominciò a salire le scale in quel modo insolito, i camerieri si precipitarono verso di lui non per aiutarlo, ma per dirgli che non potevano servire una persona in quelle condizioni in quel ristorante dove la gente andava per divertirsi e non per rattristarsi alla vista degli storpi.”

Personalmente ho salito le scale nei modi più ridicoli, e tuttavia nessun cameriere mi ha mai rotto le scatole – ma forse non frequento locali abbastanza chic.
In ogni caso, l’esempio riportato da Goffman è utile a ricordare che l’accettazione va bene, ma solo fino a un certo punto. C’è un limite oltre il quale non si può andare.

“Credo di essermi resa conto della mia situazione quando ero andata con un gruppo di ragazzi miei coetanei sulla spiaggia. Ero sdraiata sulla sabbia e credo che gli altri pensassero che dormivo. Uno dei ragazzi disse: “Mi piace molto Domenica, ma non uscirei mai con una ragazza cieca”.”

Il bravo storpio, quindi, deve comportarsi come se si sentisse normale, dev’essere a suo agio e tollerante, ma non pretendere troppo. Finché non si spinge troppo oltre, le sue strategie funzioneranno e potrà vivere come se fosse accettato.
Ma se chiede più di quanto gli è concesso, l’accettazione si rivelerà per quel che è: un'”accettazione fantasma“.

C’è poi un altro punto oscuro, su cui Goffman si sofferma solo rapidamente. Per ostentare un buon adattamento, e averne i conseguenti vantaggi sociali, lo stigmatizzato può essere costretto a negare i lati più tristi della sua esistenza.

Quando ho letto La terza nazione del mondo, un saggio sulla disabilità, sono rimasta infastidita dalla visione ossessivamente pessimista dell’autore. Non faceva che ribadire che i disabili integrati sono pochi, e che non bisogna lasciarsi ingannare dagli esempi eroici forniti da qualche lacrimevole vita in diretta, perché le difficoltà oggettive sono tante e le persone scoraggiate.
Mi innervosiva. Leggendo, sentivo l’impulso di fornirgli una lista di efficienti soluzioni pratiche atte a rendere comunque desiderabile qualsiasi tipo di esistenza. Mi dava fastidio, mi dava così fastidio che ho iniziato a chiedermi come mai.
E mi sono risposta che, forse, è perché sono proprio una brava storpia.

Ovvero, ho assimilato quasi tutte le strategie di cui al precedente post, le pratico regolarmente e questo mi fa sentire davvero a mio agio. Cioè, non è che fuori fingo, poi torno a casa e piango. No no. Sono proprio convinta di sentirmi a mio agio, sul serio. Penso che si veda anche da fuori.
Ma quando sei uno con un buon adattamento, diventa difficile gestire le difficoltà che prima o poi saltano fuori, piccole o grandi, che ti riguardino direttamente o che trovi solo citate in un saggio di sociologia.

Perché se ammetti che c’è un problema, anche una piccola cosa che ti disturba, sai che il normodotato medio potrà collegarla inconsciamente alle sue immagini tragiche relative agli stigmatizzati, e ingigantirla. Potrebbe iniziare ad avere pietà, sentirsi in colpa perché lui sta meglio, o sinistramente goderne. Potrebbe dubitare della tua reale vicinanza al gruppo dei normali, mettendo istintivamente una distanza tra te e lui.

Se un normale esprime una difficoltà, relativa a qualche aspetto della sua vita, riceverà una comprensione proporzionata. Lo stigmatizzato sarà compreso non solo in quel che ha detto, ma anche in tutto quel che l’interlocutore immagina su di lui – quindi, non sarà compreso, sarà frainteso.
Naturalmente non è detto che vada sempre così, ma cioè non toglie che lo stigmatizzato sa di doversi confrontare con questo rischio, ogni volta che si mostra più debole. E questo può dissuaderlo dal mostrarsi fragile.