Non gridate più, non gridate

Mi piacerebbe, adesso, lasciare che le cose trascorse si posino tranquille sul loro tempo, finalmente, adagiandosi in pace come una nevicata leggera. 
Sono già passata al mercato delle ragioni, ma le avevano finite – i torti, invece, restano sempre in magazzino – e ora non m’importa di sapere che fa sull’autobus, e se saluta; ché nel mio fango mi sono rivoltata tante volte, e so cosa fa la vergogna e l’imbarazzo e la poltiglia di sentimenti andati a male.
Potrei divertirmi a profanare i morti e trascinarli per il campo; farmi prestare qualche spada – c’è chi ne tiene a bizzeffe – e squartare un ricordo fino alle ossa, finché non si riconosca nemmeno più; così, quando l’avrò sfigurato, potrò raccontare la mia verità, qualunque verità, e voi mi crederete.
Eppure, io sento (lo so) che ogni pugnalata me la darei fra le costole – le mie, costole; ché uccidere il passato è tagliar via un po’ di se stessi. 

Non mi va di rinnegare; in quegli anni – uno, due forse – mi sono crogiolata ed esaltata divertita sentita stupida e importante e tormentata e comunque ci ho vissuto – dici bene tu, come di un innamoramento; il prezzo l’ho pagato – ogni tanto arriva ancora qualche rata di mancanza – e non voglio domandarmi se ne sia valsa la pena (i conti della vita non puoi farli che alla fine); tanto è stato, e così sia.  
Vorrei, soltanto, che restasse un buon ricordo; così se un giorno, forse, poi, ci rincontreremo, non avremo più bisogno di scappare.