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Calce o cenere

[Oggi fabbrichiamo spilli con Vittorio Sereni, La spiaggia. Ma stavolta non mi va di ironizzare troppo, ché questa poesia crea magnificamente un’atmosfera desolata e sospesa, una bolla troppo bella per scoppiarla punzecchiando]

Una spiaggia, una spiaggia deserta magari di sera, coi lettini accatastati e un altoparlante spento appeso al gazebo vuoto del bagnino. Ma dall’altoparlante, a un tratto, una voce metallica e saccente:

Sono andati via tutti –
blaterava la voce dentro il ricevitore.
E poi, saputa, – Non torneranno più -.
 
Qualcuno cammina sulla spiaggia, pestando sabbie mai prima visitate, eppure non intatte: qua e là una toppa, cioè montalianamente una macchia – quindi un errore, un’interruzione della luce come le macchie solari – ma anche la toppa di una serratura, dunque la porta per un altrove; oppure un brandello di stoffa appiccicato goffamente a coprire un buco, un brandello che non c’entra col resto e che nasconde una mancanza, un vuoto sotto.
In ogni caso irregolarità nella sabbia, come impronte.

Ma oggi
su questo tratto di spiaggia mai prima visitato
quelle toppe solari… Segnali
di loro che partiti non erano affatto?
E zitti quelli al tuo voltarti, come niente fosse.
 
Impronte di chi? Brandelli a coprire cosa? Serrature che aprono quali porte? Segnali di quelli che sembrano partiti, morti? Allora ti volti in fretta sperando di stanarli, come ti camminassero dietro, quatti quatti – ché magari se fai presto s’infrange l’aria di vetro e li becchi prima che di nuovo s’accampino di gitto case alberi colli.
Invece quelli zitti, come niente fosse.
– Cos’è che muore? – avrà pensato quello sulla spiaggia (che ormai sei diventato tu, lettore, dato che mi piaceva la seconda persona). Forse gli sarà apparso lo spiritello petulante di Seneca a dirgli che cotidie morimur e che il tempo davvero perduto, davvero morto, è solo quello sprecato.
Ma l’omino sulla spiaggia ha soffiato via lo spiritello scuotendo la testa, e s’è detto fra sé:

I morti non è quel che di giorno
in giorno va sprecato, ma quelle
toppe d’inesistenza, calce o cenere
pronte a farsi movimento e luce.

Allora i morti sono buchi nell’essere, rattoppi fatti di nulla ma anche vuoti dove infilare una chiave. In altre parole (ché l’omino sa di esser stato un po’ criptico, quindi precisa): calce o cenere. Calce, cioè quel che fissa, salda, costruisce e immobilizza; cenere, quel che rimane di un falò, il cadavere della luce, i resti polverizzati incapaci di riaccendersi.
E l’omino, che evidentemente a polverizzarsi non si rassegna, ti dice che la morte, la morte ch’è calce immobile e cenere spenta, è pronta – proprio pronta, lì in posizione per scattare, compressa ai blocchi di partenza – pronta a farsi movimento e luce. L’inesistenza, l’immobilità e il buio che si ribaltano, s’accendono e rivivono.
Poi respira a fondo, quello che cammina sulla spiaggia (sempre che ci sia: o forse a parlare era sempre stata soltanto un’anonima voce d’altrove?), e concludendo predice a se stesso (o a te?):

Non
dubitare, – m’investe della sua forza il mare –
parleranno.

[Ora – dato che ora, se proprio non avete i prosciutti sugli occhi, queste strane parole dovrebbero aver preso significato – come nelle migliori tradizioni scolastiche, rileggetevela tutta di seguito e godetevela.
Poi ditemi che non è bella.]

Filo

Stasera avrei dovuto leggere poesie – sì, l’esame, ma forse lo rimando, ch’é troppo bello per affrettarlo – ma ce n’era un’altra da guardare, dispiegata lì sul parco le luci gialle la nuvola leggera i rombi grigi allontanarsi la sera farsi notte… il vecchio tempo che come sempre s’approfitta, io mi fermo appena e quello sale a raccontare (c’erano altri, ricordi?, chissà dove sono, c’era anche Dio, e poi? Se ci ritrovassimo tra vent’anni, dove? Diventati cosa? Io mi vedo così uguale… almeno allora saprò delle scommesse vinte o perse, e riderò di aver sbagliato tutto).
Sarà che da un po’ non mi chiedevano – ma tu mi vuoi bene? – e alla domanda s’è impigliato un filo di maglione, di quelli che a tirarli vai a scucire una vita intera.

[Mancava un po’ quella specie di vecchio affetto, raggelato nei rapporti intellettuali]

Pollame e poesie

Inauguriamo la nuova rubrica "Fabbrica di spilli" (la seconda parte del titolo era troppo volgare per ripeterla periodicamente, suvvia) con Umberto Saba.
 
A mia moglie
Tu sei come una giovane
una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba
pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio,
Così, se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
[…]

(Qui trovate il testo completo)

Cioè, dà a sua moglie della gallina. E, siccome sono sicura che nessuno di voi ha cliccato su quel link, vi informo io che nelle strofe successive la paragona, nell’ordine, a una vacca, una cagna, una coniglia, una rondine, una formica e un’ape. Eh, non ci sono più le donne angelo di una volta. I capei d’oro a l’aura sparsi sono diventate piume che s’arruffano.
Al ricevere una poesia simile, qualunque banale moglie si sarebbe incazzata come una iena, suggerendo così al candido partner una similitudine animalesca più appropriata. Saba aveva appunto una moglie banale, che s’incazzò. Ma noi non siamo banali! Siamo maestri nella fabbricazione di spilli per inculare mosche: per cui sapremo trasformare questi versi da testo promettente per il seguito di Cara ti amo a vero pilastro della letteratura italiana.
Vediamo perché.

 

chiesa affollata di animali da cortile

 

Secondo il commentatore di quel pacco di fotocopie bertoniane, questa immagine fotografa perfettamente la poesia considerata: il vocabolario del cortile invade il classicistico edificio formale del testo. In altre parole, nessuno prima aveva messo i polli in endecasillabo. Insomma, la struttura è una canzone leopardiana, il verso pare libero ma nasconde endecasillabi e settenari, pullula di periodi aggrovigliati (sistemate un po’ questo puzzle di parole: e verso te gli orecchi / alti protende e fermi) e di termini aulici (ditemi chi di voi, per dire "sei scazzata" direbbe "ti quereli dei tuoi mali"); MA tutto ciò convive, appunto, con gabbie e pollastre arruffate.
Ora avrete capito perché lo sconcerto dei lettori del tempo è ben rappresentato dall’espressione della cagna in primo piano.

Eppure l’anonimo commentatore non è soddisfatto. Sostiene infatti che non sia possibile separare così nettamente forma e contenuto: và, se una gallina si ritrova in una chiesa significa che qualcuno ce l’ha portata apposta. Potrei dilungarmi sui perché e i percome, ma io voglio che arriviate alla fine di questo post, e mi rendo conto che una dissertazione del genere potrebbe dissuadérvi (o dissuàdervi? Si accettano scommesse) da tale nobile proposito. Mi limiterò quindi a lasciarvi un’immagine simbolica della fusione forma-contenuto.

 

gallina con colonne nella panza

 

E ora veniamo all’aspetto veramente sovversivo della poesia.
Dovete sapere che Saba, conoscendo le acrobazie interpretative dei sodomizzatori di mosche, pensò bene di pararsi il didietro scrivendo una bella Storia e Cronistoria del Canzoniere, in cui spiegava genesi e significato dei suoi testi. Lì parla anche di A mia moglie, definendola una poesia infantile: se un bambino potesse sposarsi e scrivere una poesia, scriverebbe questa.
Vedetevelo, Saba, che cerca di nascondersi dietro un tavolo mentre la moglie gli tira dietro i piatti, e con un sorrisino innocente da candido fanciullo dice tremando "ehi, io non pensavo che vacca significasse troia, davvero, sono come un bambino". Fossi la moglie, passerei al mattarello.
Insomma, non è credibile. Quell’infantile deve voler dire qualcos’altro.

Facciamo un passo indietro. Il buon vecchio Contini sentenziò che Saba era psicanalitico prima della psicanalisi. Qualunque cosa voglia dire, intuiamo che per capire il nostro caro nevrotico (sì, perché Saba era nevrotico e finì sotto psicanalisi lui stesso) potrebbe essere utile inserirlo nel contesto freudiano di primo novecento.
Da questo punto di vista, cosa vuol dire infanzia? Lego? Canzoni degli 883? Dinosauri di gomma? No! Andare al mare nudi? Ecco, c’entra già di più: secondo il nostro critico, infatti, infanzia significa assenza di tabù.
Gli esseri umani hanno deciso che la gallina rappresenta la stupidità, mentre la vacca, la cagna e la coniglia il sesso. Di conseguenza, paragonarli a una donna è un tabù. Eppure, nemmeno quella pettegola della gallina sa dei trascorsi libidinosi della vacca, né probabilmente la vacca vi direbbe che la gallina è stupida. E neppure un bambino. (Oddio, per me i bambini sono stronzi anche con gli animali, ma questo è un dato che farebbe crollare la nostra argomentazione e quindi lo ignorerò).
Insomma, non poter dare della gallina alla propria moglie è una convenzione; da un punto di vista infantile non ci sarebbe niente di scandaloso. Saba allora attua consapevolmente una regressione, in senso psicanalitico, al di qua del tabù convenzionale, come dire "oh, non è che io non sappia che certe cose non si dovrebbero dire; anzi, proprio perché lo so e mi sono rotto, decido di riprendermi a forza il mio stato naturale e primigenio".
Chiaro? No, ma non importa, tanto l’esame devo darlo io.
Oh,
cazzo,
l’esame.
(Tipico esempio ungarettiano di parola-verso. La struttura tipografica piramidale rappresenta la pendenza fisica dalla cui cima l’esaminanda rotolerà inesorabilmente verso il basso, cacciando l’ultima craniata sul puntino che termina il componimento.)

Oh, io volevo spiegarvi anche come Saba ha rivoltato l’Amor Cortese, sostituendolo con una teoria new-age ricca di contaminazioni cielline e vagamente misogine; ma mi dicono dalla regia che dovrei smetterla di sparare stronzate e andare a studiare.

Spilli

vignetta

Io sono l’unica

che al gioco delle sedie – dai, quello che c’è una sedia in meno e perde chi resta in piedi – non dovrebbe perdere mai.
E invece, chissà come, quando arrivo il posto è sempre già occupato.

Lapsus freudiani

Da Repubblica http://www.repubblica.it/2007/04/sezioni/cronaca/ferita-ombrello-metro/funerali-vanessa/funerali-vanessa.html

"Ma nell’omelia il parroco, don Eusebio Mosca, ha sottolineato che, sia pur nel grande dolore, la famiglia di Vanessa chiede vendetta, non giustizia"

Ma il bene ha un diverso nome?

– Ma guardi che avevo il biglietto
– Per cosa?
– Massì, l’avevo pure prenotato! Era per "oretta in macchina di chiacchiere e risate…"
– Faccia vedere
– …
– Signorina si sbaglia
– Come?
– Qui c’è scritto "speciale follia: passeggiata nel paesello con un quindicenne pazzo, cantando a squarciagola Old Abram Brown davanti a ignari vecchietti".
– Non è possibile… non ho mai imparato bene Old Abram Brown
– Perché, ha mai cantato a squarciagola per la strada?
– …
– Quindi di che si preoccupa. Prenda il suo biglietto e si diverta.
– Ma c’è un errore…
– Nessun errore. La attende una delle serate più assurde e sfacciate della sua vita, davvero. Arriverà a un soffio dal domandare l’elemosina ai passanti. Troverà l’inaspettato coraggio del nonsense. Mi creda, lo ricorderà per sempre.
– Vabbè ma…
– Ma?
– Non era questo che volevo
– …E’ sicura?
– …
– Ecco, vede. "Se è sbarrata è sbagliata la via dove insisto…"
– E… e quel si diceva dietro le quinte?
– …
– Puntinipuntini un cazzo! Lo so che lei sa già come andrà a finire! Mi dica che devo fare!
– "Speciale follia: passeggiata nel paesello con un quindicenne pazzo, cantando a squarciagola Old Abram Brown davanti a ignari vecchietti". Questo è il suo biglietto. Avanti il prossimo.

Se è sbarrata è sbagliata

Attenzione! Appello poetico: aiutate una poesia orfana e mutilata

Sfogliando le dispense di Bertoni che m’appresto a studiare, ho trovato un manoscritt…no, una mezza poesia fotocopiata. Solo che non c’è titolo, quindi forse manca la parte iniziale, e non c’è autore.
Epperòèbbellissima.
Cioè, quest’uomo/donna ha poetato sul mio ultimo post, anni prima che lo scrivessi, và. [Da ciò si deduce che non sono per niente originale, MA direbbe Purini: "Sapere che tutto è già stato fatto non è un limite all’invenzione, ma una sua fondamentale premessa" (vedi Gio che ho imparato qualcosa ^^)]

Comunque, Google non ne sa nulla e io sono persa. C’è una poesia orfana di inizio, titolo e autore. Quindi, cari i miei Piccoli Filologi Crescono, indagate.

 

E’ vero, ho giustificazioni da addurre,
ma la mia colpa principale è la speranza
e di me fa lo stupido animale
che uno zòtico guardiano
allo zoo per diletto gli astanti sbeffeggia:
annaspo a futili esche, sbatto il muso

e lui ride e anche io voltandomi intorno.
Dovrei cambiare gioco, ma questo conosco,
la via al bene, che mi ha insegnato
il nemico del bene e nostro,
l’imperturbato campione di judò che mi sfianca
mi torce tendini e cartilagini.

Così a mia discolpa avrò anche l’essere stremato
quando conforme alla previsione
battuto con onore desisterò.
Ma quanto intanto fingere di non sapere
che se è sbarrata è sbagliata
la via dove insisto – e il bene ha un diverso nome.

Ma chi ci ha condannati

alla speranza?

Vorrei che le cose fossero soltanto ciò che sono.
Invece si fingono sempre ciò che spero.

No, il problema non è strettamente il fatto che poi non si realizzino.
E’ piuttosto tutto il tempo perduto a guardare una falsa verità.

Mi avevano detto

che Notre Dame de Paris è un mattone infinito, pieno di sbrodolamenti descrittivi e digressioni storico-artistiche. Quando dicevo che mi toccava leggerlo per l’esame, raccoglievo condoglianze.
Quindi probabilmente sono malata.

Ma a me è piaciuto un casino.
Ok, ho saltato qualche paginetta, però ben poche rispetto al malloppo – e poi non rompete, ché Pennac mi ha assolto.

Mi asterrò dal far commenti, che tanto mi usciranno dalle orecchie appena mi farò passare gli appunti di Basile; tuttavia non posso evitare di pormi una domanda cosmica:

perché nei romanzi storici i personaggi femminili sono tutti rincoglioniti?

Ora, di Lucia si sa: ogni professore si toglie lo sfizio di smerdare Manzoni per aver creato una giovane donna così pia, saggia, coerente e pallosa. Prima ancora di cominciare a leggere i Promessi, uno studente la odia già, più o meno per la stessa ragione per cui odia Topolino.
Dunque si dice che sia un personaggio piatto, poco approfondito. Lucia.
…Ma vogliamo parlare di Esmeralda?
No, dico, parliamone. Lucia al confronto è una mente di tutto rispetto – pallosa, vabbè, ma alla fine il sugo della storia lo tira fuori lei.
Esmeralda, invece, è una pura beota. 16 anni di vita zingaresca avrebbero dovuto renderla scafata e cazzuta contro gli ingannatori, oltre che, magari, astutamente puttanella per guadagnarsi il pane. Da brava strafiga, avrebbe potuto usare quel talento per far strada socialmente in una Vallettopoli ante litteram.
Ma se Esmeralda l’avessa data subito, non si sarebbe potuto fare il romanzo.

Quindi Esmeralda doveva essere la precorritrice* pagana di Maria Goretti, con un’aggiunta di stupidità.
Per tutto il romanzo, la zingara fa quattro cose: balla, canta, si spaventa e dice “Phoebus”.
Phoebus è la causa principale del suo rincoglionimento, ovvero un bell’arciere di cui s’è innamorata. Non mi dilungherò a descrivere il loro rapporto, perché per comprenderlo basta immaginare una tredicenne arrapata che squittisce dietro a Scamarcio.
Ora, bisogna ammettere che anche le infatuazioni maschili non hanno basi più nobili di una tempesta ormonale; ma è proprio quello il bello del romanzo. E’ così animalesco, brutale, per niente consolatorio (e su questo Manzoni sta su un altro pianeta; mettiamo pure che sia romanzo senza idillio e tutto, ma vogliamo paragonare la tragicità?).
Tuttavia, i due uomini innamorati hanno una loro dignità di personaggi tormentati e drammatici: quel sentimento impossibile li scava dentro trascinandoli verso una specie di follia disperata e dannata, che Hugo descrive senza lesinare dettagli.
Esmeralda no. L’amore di Quasimodo ti fa una compassione struggente, quello di Frollo una compassione tragica, quello della zingara ti sembra superficiale e basta. Lei si limita a nominare continuamente l’amato con aria assorta, fino all’apice di assurdità: riuscita per un soffio a nascondersi in una celletta, tutta attenta a rattrappirsi e a non fare alcun rumore per non essere scoperta dai soldati, che là fuori la stanno cercando, sente la voce di Phoebus e che fa? Lo chiama e si fa sgamare!
Cioè, uno alla fine comincia a tifare perché la impicchino davvero.

*Ebbene sì, questa parola orribile esiste davvero ed è il femminile di precursore. Controllate. Poi non usatela mai più.