Mi avevano detto

che Notre Dame de Paris è un mattone infinito, pieno di sbrodolamenti descrittivi e digressioni storico-artistiche. Quando dicevo che mi toccava leggerlo per l’esame, raccoglievo condoglianze.
Quindi probabilmente sono malata.

Ma a me è piaciuto un casino.
Ok, ho saltato qualche paginetta, però ben poche rispetto al malloppo – e poi non rompete, ché Pennac mi ha assolto.

Mi asterrò dal far commenti, che tanto mi usciranno dalle orecchie appena mi farò passare gli appunti di Basile; tuttavia non posso evitare di pormi una domanda cosmica:

perché nei romanzi storici i personaggi femminili sono tutti rincoglioniti?

Ora, di Lucia si sa: ogni professore si toglie lo sfizio di smerdare Manzoni per aver creato una giovane donna così pia, saggia, coerente e pallosa. Prima ancora di cominciare a leggere i Promessi, uno studente la odia già, più o meno per la stessa ragione per cui odia Topolino.
Dunque si dice che sia un personaggio piatto, poco approfondito. Lucia.
…Ma vogliamo parlare di Esmeralda?
No, dico, parliamone. Lucia al confronto è una mente di tutto rispetto – pallosa, vabbè, ma alla fine il sugo della storia lo tira fuori lei.
Esmeralda, invece, è una pura beota. 16 anni di vita zingaresca avrebbero dovuto renderla scafata e cazzuta contro gli ingannatori, oltre che, magari, astutamente puttanella per guadagnarsi il pane. Da brava strafiga, avrebbe potuto usare quel talento per far strada socialmente in una Vallettopoli ante litteram.
Ma se Esmeralda l’avessa data subito, non si sarebbe potuto fare il romanzo.

Quindi Esmeralda doveva essere la precorritrice* pagana di Maria Goretti, con un’aggiunta di stupidità.
Per tutto il romanzo, la zingara fa quattro cose: balla, canta, si spaventa e dice “Phoebus”.
Phoebus è la causa principale del suo rincoglionimento, ovvero un bell’arciere di cui s’è innamorata. Non mi dilungherò a descrivere il loro rapporto, perché per comprenderlo basta immaginare una tredicenne arrapata che squittisce dietro a Scamarcio.
Ora, bisogna ammettere che anche le infatuazioni maschili non hanno basi più nobili di una tempesta ormonale; ma è proprio quello il bello del romanzo. E’ così animalesco, brutale, per niente consolatorio (e su questo Manzoni sta su un altro pianeta; mettiamo pure che sia romanzo senza idillio e tutto, ma vogliamo paragonare la tragicità?).
Tuttavia, i due uomini innamorati hanno una loro dignità di personaggi tormentati e drammatici: quel sentimento impossibile li scava dentro trascinandoli verso una specie di follia disperata e dannata, che Hugo descrive senza lesinare dettagli.
Esmeralda no. L’amore di Quasimodo ti fa una compassione struggente, quello di Frollo una compassione tragica, quello della zingara ti sembra superficiale e basta. Lei si limita a nominare continuamente l’amato con aria assorta, fino all’apice di assurdità: riuscita per un soffio a nascondersi in una celletta, tutta attenta a rattrappirsi e a non fare alcun rumore per non essere scoperta dai soldati, che là fuori la stanno cercando, sente la voce di Phoebus e che fa? Lo chiama e si fa sgamare!
Cioè, uno alla fine comincia a tifare perché la impicchino davvero.

*Ebbene sì, questa parola orribile esiste davvero ed è il femminile di precursore. Controllate. Poi non usatela mai più.