Sono un po’ stanca,

stasera. Sono stanca di uscire dall’ufficio della preside sbattendo la porta, di dover strappare con le unghie e con i denti ogni brandello di libertà; sono stanca di saper argomentare alla perfezione un’arringa ciceroniana su qualche argomento filosofico, per poi sentirmi crollare la voce quando si parla di me. Sono stanca di litigare con dei muri sordi, di spiegare perché non posso fidarmi di chi dice “sì sì è accessibile” senza sapere di cosa sta parlando, di essere guardata dall’alto in basso, protetta, tutelata, assistita e sistemata da chi sa cos’è meglio per me ancor prima di chiedermelo. Niente per noi senza di noi.

Ma sì, domani mi passa e si torna a lottare, a incazzarsi, a cercare circolari su internet – perché non cambierà, sai, anzi sarà sempre peggio, meglio che ti abitui alla gente incapace. E poi sei una con le palle, tu, certo che te la caverai, sai difenderti e sai attaccare – è una vita che ti alleni contro i mulini a vento.
Già. Però oggi – solo per oggi, dai – avrei voglia di sfilarmi l’armatura, deporre le armi per un po’, prendere in prestito il corpo di qualcun altro e, semplicemente, fare quel che fanno tutti.

Roma

io e giovanni

(foto by Manola)

Ecco a voi l’esplosivo contatto delle migliori Teste della blogosfera (non per vantarmi, ma una è mia U.U)!

Ho rinfrescato nella memoria qualche fotografia sbiadita dei luoghi ove si accampò la gloriosa Seconda C, la via dei fori (c’è ancora quello che suona), la statua di Cesare, Benna che fa nonna Abelarda, con Juorge (robin hood e little john…), l’angolo di piazza Venezia dove una pianse e s’accorse a consolarla, ma io non sapevo come fare e rimasi lì sentendomi inutile; piazza di Spagna ricoperta di folla e la metro inaccessibile (mi accompagnarono a piedi, un paio di buone samaritane, fino alla stazione).

Ma soprattutto: lo stomaco che ti fa tutto il giro del corpo mentre aspetti al binario e finalmente si scioglie quando t’arriva incontro quella faccetta sorridente, le risate in romanesco, diaz in santa maria degli angeli, quel percorso assurdo per attraversare la strada, i sanpietrini stronzi, la fase Alberto Angela ai fori – e il tempio?, le librerie – com’è che non andiamo a fare shopping…?, “La notte dei blogger” che t’ho regalato – che altro avremmo potuto prendere, noi!, le peripezie in piazza di Spagna – no raga, ho paura!, villa borghese coi busti letterariamente inquietanti nonché decapitati, il risciò assassino e lo scatto giovanneo, le cupole dal Pincio – ‘ndo sta il Pantheon?, gli zingari – razzista!, il taxi per la stazione – hai visto… abbiamo parlato senza bigliettini^^, i saluti appannati dal finestrino.

(Uff. Te pare, Dio, di farne due con lo stampino e piazzarli a cinquecento chilometri di distanza?)

Cose che ho imparato:
1) Gli amici sono spesso utili, ma non sempre. Ci sono cose che bisogna fare da soli – e non perché gli altri siano egoisti o non disponibili o indifferenti. Solo, non puoi chiedere quel che non si sentono di dare.
2) C’è una persona su cui posso contare davvero. Anche se non ci vediamo tanto, anche se abbiamo preso strade diverse, lui c’è. Farei qualunque cosa per te – sì, l’ha detto scherzando; eppure, non è molto distante dal vero. (Grazie, Luca)
3) Prendere in mano la propria vita in questo modo dà un’ebrezza speciale. Ma la libertà vera sarebbe poterlo fare senza nascondersi.*
4) Giova’ non è timido quanto mi aspettavo; io non sono timida quanto mi aspettavo. Ed è strano, ma bello, vedere che effetto fa mescolare la confidenza interiore con la assoluta non conoscenza fisica.

*Pregasi di censurare accuratamente questo post con chiunque assomigli a un mio familiare

Stupide cose

Lo ammetto, ho guardato ancora in fondo alla stradina, pensando beh, magari le portano i saluti e lei capisce dove trovarmi – lo sa, lei, dove trovarmi – e arriva.
Ma no, ora che ci penso; lei non farebbe queste stupide e poetiche cose, non lo farebbe così, soltanto per una vecchia amicizia andata a male.

Forse ero io

Mi sono infilata nel buio invernale, stasera. Dovevo sbrigare un paio di commissioni per conto della mia libertà.
Freddo in faccia, luci accese, gente in giro, cappotti. Negozi e sanpietrini.
Sono entrata in chiesa; silenzio in penombra. Un Dio inchiodato in fondo – o un’illusione inchiodata in fondo (eppure le mura e le panche vuote grondavano di Dio, come oltre quella porticina nella nebbia di Buzzati).

Le commissioni le ho sbrigate. Chissà se riuscirò davvero a dare un senso ai miei diciott’anni.
(Avevo qualcosa, nelle mani, dentro i guanti. Qualcosa che mi appartiene. Forse ero io.)

[C’è un posto dove non capitavo da molto tempo. Quando ci passavo davanti, da piccola, mi pareva una salita enorme, altissima, insormontabile. Quel che c’era dietro era sempre rimasto un po’ misterioso.
Una, due, tre, quattro bracciate, ed ero su.
Tiè.
]

Rischiate il pensiero

Pensate sbagliato, rimangiatevi l’opinione, cambiate idea, smontatevi e ricomponetevi, ma pensate. Chiedetevi il perché di ciò che accade e di ciò che fate, chiedetevelo anche se non trovate risposta: avrete con voi il dubbio e sarà già abbastanza.
Agite per una ragione: qualunque ragione, della testa o dell’istinto, meditate a lungo o decidete in fretta, usate il buon senso o l’empatia, la sensibilità o l’intuizione; ma siate consapevoli di ciò che volete.
Scegliete da voi: rompete il pilota automatico e bucate la superficialità, afferrate saldamente il vostro timone e decidete la rotta; non siate sonnambule zattere nella corrente.
Ascoltatevi. Dialogate con voi stessi, date la parola a tutte le voci, considerate attentamente le possibilità.
Rischiate il pensiero. Anche quando è scomodo, nebuloso, incerto o strano; anche se poi cambia in tre giorni e vi frega, anche se vi mette in gioco dalle fondamenta, vi scombina le certezze, vi presenta il conto.
Ma non diventate mai squallidi esecutori, anonimi ingranaggi, docili sudditi.
Chiunque sia il vostro tiranno: che stia fuori di voi, o dentro.

[Cose che si pensano dopo aver letto la Arendt]

Lettera a Dio

Caro Dio,
ci siamo appena visti, là, in quel corridoio d’ospedale arrangiato a chiesetta, con due file di sedie strette ai muri e lo spazio in mezzo lasciato libero per gli infermieri.
Suona stonato e stridente, quel prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, quando le rovine te le ritrovi sedute lì, giallognole con la flebo appresso; sembra quasi un’offesa, una presa in giro, un affronto indelicato.
Lo sai che non mi piacciono quelli che vantano mistiche ispirazioni alla vista dello sfigato di turno, innalzato a immagine crocifissa della sofferenza divina – forse perché per qualcuno la sfigata di turno potrei essere io, e non mi sento immagine di un bel nulla. Uh, può darsi che per un attimo abbia pensato di essere anch’io la buona samaritana che si fa il Natale al Reparto Infettivi del Sant’Orsola, ma t’assicuro che ho cambiato idea appena una signora m’ha scambiato per una ricoverata – e non ridere, te, che t’ho visto sai. Dillo che ti sei divertito a mandarmi una divina botta di umiltà. Comunque non importava, guarda che sapevo bene di non poter guardare nessuno dall’alto in basso – vabbè che ho la memoria corta, ma il Natale in corsia me lo feci pure io, ai tempi. In pediatria mandarono un patetico babbo natale, e non avevo nessuna voglia di farmi compatire, t’assicuro.
Tutto ciò per dire che non ti ho visto propriamente in quelle persone, almeno non più che in tutti gli altri. Ma c’eri nel mezzo. Stavi nell’inconciliabile contraddizione fra gioia natalizia e sofferenza ospedaliera, nella cruda e tormentata umanità degli abbracci fra i malati e i quattro parenti venuti a trovarli, nel raccogliersi attorno a un altare con un lenzuolo da letto d’ospedale come tovaglia, nei singhiozzi della donna che al canto finale ha pianto insieme a un ragazzo, forse il figlio, per chissà quale intima ragione.
Lì, dove graffiavano insieme tutte le domande scomode, dove si mischiavano torbidamente speranze e disperazioni, brillava la disarmante assurdità del farsi carne – quella carne, livida e raggrinzita; e la nostra carne, infetta dentro.

Caro Dio, forse c’eri anche stamattina, alla messa parrocchiale delle signore impellicciate; eppure, ho l’impressione che tu ci sia andato quasi di malavoglia, infrattandoti in qualche cappelletta laterale, e guardando di sbieco gli omuncoli inamidati che s’affollavano in fondo, ansiosi di sbrigare anche questa noiosa formalità natalizia.
Invece, stasera, nel piccolo corridoio dell’Aids, mi piace pensare che ti fossi seduto a tuo agio, venendo poi ad abbracciarci discretamente a uno a uno, come il don mentre dava la pace.

Ora, non pensare di cavartela così, ché non ho certo deciso di crederti sul serio. Ma, almeno, questo Natale non è passato senza senso.

Natale

angolo natalizio in sala

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

(Giuseppe Ungaretti)

[Il presepe s’è rimpicciolito, non sono mai andata a giocare con le pecorelle, non ho spento la luce per guardare l’albero lampeggiare, né ho contato le case di fronte accendersi a una una durante l’avvento. Di quei pacchi sotto l’albero, non ne ho tastato nessuno per intuirne il contenuto; e anzi non ho chiesto nulla, semplicemente perché ho già tutto – non mi hanno fatto nemmeno il regalo dei diciotto: non sapevo cosa farmi comprare (devo essere l’antitesi del consumismo – o forse ne sono la sua estrema conseguenza, soddisfatta e rimpinzata)]

Ah, dimenticavo.

Auguri! Non quelli orribilmente convenzionali, però; tipo quelli che mi ha mandato la Cri, magari.

Tu
che
ne dici
SIGNORE se
in questo Natale
faccio un bell’albero
dentro il mio cuore, e ci
attacco, invece dei regali,
i nomi di tutti i miei amici: gli
amici lontani e gli amici vicini, quelli
vecchi e i nuovi, quelli che vedo ogni gior-
no e quelli che vedo di rado, quelli che ricordo
sempre e quelli a volte dimenticati, quelli costanti
e quelli alterni, quelli che, senza volerlo, ho fatto soffrire
e quelli che, senza volerlo, mi hanno fatto soffrire, quelli che
conosco profondamente e quelli che conosco appena, quelli che mi
devono poco e quelli ai quali devo molto, i miei amici semplici ed i miei
amici importanti, i nomi di tutti quanti sono passati nella mia vita.

Un albero con radici
molto profonde, perché
i loro nomi non escano
mai dal mio cuore; un
albero dai rami molto
grandi, perché i nuovi
nomi venuti da tutto il
mondo si uniscano ai già
esistenti, un albero con
un’ombra molto gradevole,
affinché la nostra amicizia
sia un momento di riposo
durante le lotte della vita.

Ah, raga! Vi saluta e vi fa gli auguri il CERES, che ha ricevuto il nostro biglietto!

Il mio programma preferito

la mia tv col cielo riflesso

[Per poterla guardare comodamente, dovrei piazzare il mobiletto della tv davanti alla finestra. Ora ditemi perchè dovrei preferire una scatola al cielo azzurro.
Dio* ha molta più fantasia
]

(*o chi per lui)

I poeti vivono

tetti all'alba

sui tetti all’alba, arzigogolando versi coi rivoli di sogni sbuffati dai camini.

Nuntio vobis gaudium magnum

Ho trovato un modo sicuro ed efficiente per salire le scale.
Sul serio.

Ecco, mi sono ritrovata i pantaloni e le mani un po’ impolverati, dopo, però funziona.

[Ovvero: come cavarsela quando vai a una festa e scopri che l’ascensore non arriva al piano giusto, mentre tuo padre borbotta “devi capire che certe cose non le puoi fare”]