Lettera a Dio

Caro Dio,
ci siamo appena visti, là, in quel corridoio d’ospedale arrangiato a chiesetta, con due file di sedie strette ai muri e lo spazio in mezzo lasciato libero per gli infermieri.
Suona stonato e stridente, quel prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, quando le rovine te le ritrovi sedute lì, giallognole con la flebo appresso; sembra quasi un’offesa, una presa in giro, un affronto indelicato.
Lo sai che non mi piacciono quelli che vantano mistiche ispirazioni alla vista dello sfigato di turno, innalzato a immagine crocifissa della sofferenza divina – forse perché per qualcuno la sfigata di turno potrei essere io, e non mi sento immagine di un bel nulla. Uh, può darsi che per un attimo abbia pensato di essere anch’io la buona samaritana che si fa il Natale al Reparto Infettivi del Sant’Orsola, ma t’assicuro che ho cambiato idea appena una signora m’ha scambiato per una ricoverata – e non ridere, te, che t’ho visto sai. Dillo che ti sei divertito a mandarmi una divina botta di umiltà. Comunque non importava, guarda che sapevo bene di non poter guardare nessuno dall’alto in basso – vabbè che ho la memoria corta, ma il Natale in corsia me lo feci pure io, ai tempi. In pediatria mandarono un patetico babbo natale, e non avevo nessuna voglia di farmi compatire, t’assicuro.
Tutto ciò per dire che non ti ho visto propriamente in quelle persone, almeno non più che in tutti gli altri. Ma c’eri nel mezzo. Stavi nell’inconciliabile contraddizione fra gioia natalizia e sofferenza ospedaliera, nella cruda e tormentata umanità degli abbracci fra i malati e i quattro parenti venuti a trovarli, nel raccogliersi attorno a un altare con un lenzuolo da letto d’ospedale come tovaglia, nei singhiozzi della donna che al canto finale ha pianto insieme a un ragazzo, forse il figlio, per chissà quale intima ragione.
Lì, dove graffiavano insieme tutte le domande scomode, dove si mischiavano torbidamente speranze e disperazioni, brillava la disarmante assurdità del farsi carne – quella carne, livida e raggrinzita; e la nostra carne, infetta dentro.

Caro Dio, forse c’eri anche stamattina, alla messa parrocchiale delle signore impellicciate; eppure, ho l’impressione che tu ci sia andato quasi di malavoglia, infrattandoti in qualche cappelletta laterale, e guardando di sbieco gli omuncoli inamidati che s’affollavano in fondo, ansiosi di sbrigare anche questa noiosa formalità natalizia.
Invece, stasera, nel piccolo corridoio dell’Aids, mi piace pensare che ti fossi seduto a tuo agio, venendo poi ad abbracciarci discretamente a uno a uno, come il don mentre dava la pace.

Ora, non pensare di cavartela così, ché non ho certo deciso di crederti sul serio. Ma, almeno, questo Natale non è passato senza senso.