Monthly Archives: Dicembre 2007

Simone Lago, Il nordest è una bomboniera

(I sorpassi si susseguono in questa stanza:

cimeli della comunione e della cresima

deragliano su mensole più in alto, in seconda fila,

mentre in basso succedono avvenimenti,

quelli più nefasti)

“Che roba xea co’ chea piva” fa mia madre

di fronte a un narghilé da Djerba nuovo:

“lascia stare -no- non puoi capire” e pure io

penso, dato che non c’ho mai pipato dentro

che non so come si faccia coi tocchi di carbone

e il tabacco al miele che non prende.

E un po’ sorrido quando fa “mòeghea

co’ chel tamburo che te sveji la nona”

ed è un bongo senegalese firmato Niass.
Ogni tanto però lo sguardo di mio padre

se avesse studiato direbbe che

quest’ invasione di souvenir non fa

il nostro gioco.

Che di multiculturale c’è solo

lo sbraitare del mercante, come a Istanbul

così a Mestre,

che insomma tutti ci fanno il pane

con le cose che danno a intendere.
Ma tutto questo lo traduce in una smorfia

obliqua della bocca con un lento

dondolìo del capo;

e io lo capisco, e gli voglio bene

ma non darei due soldi alla mia versione.
Pure inutile sarebbe dire che si cresce

che c’è voglia di abbandonare la stalla

che nei ’70 è diventata un’impresa plastica

durata finché è durato questo distretto

marshalliano;

‘spiace dirlo ma i miracoli

non sono eterni e soprattutto

qui al nordest dove -insomma- si fa il pane

con le cose che si danno a intendere.
Perciò le mensole si vestono di feticci

di smanie etniche e culturali,

degli occhi svelati di una mediorientale

che prende il çay in una laterale di Haliç street.
E il sorpasso fosse allora un’inversione

di tendenza, il dire finalmente che ci siamo

rotti le palle di questi schei.

Che coi schei

abbiamo comprato le bomboniere, pagato

il vescovo e il prete quel giorno e dentro

non m’è rimasto niente, madre, che anni fa

come hai visto ti ho risposto male e maledetto,

e hai temuto facessi come Pietro Maso.
Non ci faremo il pane con la voglia d’evadere

né il montenegro in piazza Castelfranco;

probabile sì, finiremo a fare a botte in sagrato

cogli albanesi e i magrebini, a dividerci lo spazio

sopra gli eternit per guardare un po’ più lontano.

(Simone Lago ha anche un blog) 

(Se mi interrompete ancora potrei uccidere)

Cazzo, non si possono scrivere poesie quando ti entrano in camera ogni tre minuti.

[E la Woolf credeva che bastasse una stanza tutta per sé]

Che palle, ovvero: Sermonti vs Benigni

“Il suo modo di attualizzare Dante è divertente ma non si possono dire spiritosaggini e cose un po’ ovvie per adescare il pubblico. Questo non è un buon servizio fatto al Poeta e nemmeno agli ascoltatori. Ho 78 anni e mi dispiace lasciare il campo a questo tipo di divulgazione allegra. Dante è duro e severo e ci vuole durezza e severità per capirlo. E’ un’operazione delicatissima, che non si può fare alla buona”.

Certo che Benigni è alla buona. Pochi giorni fa ho studiato alla meno peggio il primo canto, sul Sapegno, e nella mia fancazzista ignoranza ne sapevo comunque di più di quanto ha detto lui ieri sera. Magari avrei evitato di dire che la Commedia è stata scritta perché Dio esista e simili vacuità ad effetto.

Ma Benigni ha fatto il miracolo di svestire la letteratura della sua aulica terribilità: e non costruendo altra pseudoletteratura similfuturista o trasformando in arte una scatoletta di merda, ma prendendo l’Arte, quella consacrata, quella del poeta laureatissimo, e liberandola dalle aule di stantii conferenzieri e accademici incartapecoriti che scrivono biblioteche su ogni verso. Se n’è reimpadronito, fregandosene degli anatemi intellettualoidi, e l’ha tradotta in una versione certamente semplificata, ma in grado di raggiungere coloro che altrimenti avrebbero ricordato soltanto il disgusto dantesco dei giorni scolastici, passati memorizzando contorte parafrasi. Quanto agli altri, nessuno gli vieta di sorbirsi dottissime lecturae dantis e ascoltare le cavernose recitazioni di Sermonti – che, fra l’altro, non mi risulta vadano deserte.

Quella sermontesca mi pare la spocchia di chi smerda Baricco perché non è Manzoni e Allevi perché non è Bach: appunto, Baricco e Allevi non sono Manzoni e Bach, sono qualcosa di diverso e hanno un pubblico diverso. Parte di questo pubblico potrebbe anche partire “dal basso” e avvicinarsi poi a un approfondimento, ma non dev’esser questa l’unica ragione di dignità per i divulgatori/intrattenitori (tanto più che, se quello di Benigni è intrattenimento in senso deteriore, le stronzate televisive cui siamo abituati che cosa sarebbero?!?).

Rivendico il valore del divertimento in sé, del piacere culturale semplice, tanto più quando tocca corde umane – forse banali, forse poco filologicamente accurate e poco letterarie, ma quanto umane!
Ricordo che i poemi cavallereschi, altra palla scolastica infinita (Sisto, ti voglio bene, ma l’Ariosto l’odiavo, ammettiamolo) venivano scritti per divertire la corte e diventavano bestseller. Nel Quattrocento fior di umanisti “s’abbassavano” a scrivere canti di carnevale a doppio senso osceno.

Ma noi abbiamo perso la capacità di trovare un bello “elevato” nel semplice. Forse perché quella stronza della società (è sempre colpa della società, nonché delle mezze stagioni che, si sa, sono assenteiste peggio dei dipendenti pubblici) ci circonda in effetti di banalizzazioni estreme; quindi, per difenderci, per distinguerci dalla marmaglia, preferiamo arroccarci dietro la complicazione estrema.
Che è il modo migliore per fa sì che la maggior parte della gente, scoraggiata, si arrenda alla banalità totale.

Certo che non sono gelosa, scherziamo.

Buffo come saperlo – cioè, ipotizzarlo per una diceria, ché non è successo niente ancora –
mi lasci così del tutto indifferente, e non muova nessun recondito muscolo del mio stomaco
al ricordo
(o alla frustrazione)
Certo però almeno razionale – per innato anelito alle cause – nasce la domanda:
chissà che cosa ci mancava.

Giuseppe Ungaretti, Nasce forse

C’è la nebbia che ci cancella

Nasce forse un fiume quassù

Ascolto il canto delle sirene
del lago dov’era la città

Estetica ciellina

Ci sono motivi insensati e prerazionali per cui le cose (e le persone?) ci attirano o ci schifano. Poi ci costruiamo mille buone ragioni per nasconderlo, ma in fondo l’unica vera non-ragione è solo un ricordo che aggalla, una vecchia paura, un’abitudine antica, un’aspettativa da colmare.
Al di là di quanto possa apprezzarle razionalmente, alcune situazioni hanno una forma, un’estetica ch’è mia e mi ci ritrovo, come a casa; altre invece non mi appartengono, le sperimento per curiosità umana o interesse intellettuale, ma saranno sempre casa d’altri, dialetti diversi, il disagio freddo di dormire in un albergo e al mattino non trovare il bottone della luce lì al suo posto.

Questo fine settimana ho avuto a che fare col secondo genere di estetica. Non amo fare esercizi spirituali in ottomila dentro un padiglione da fiera, mi fa ridere l’omino serissimo che dirige i canti come marce militari, nonché la drammatica gravità di chi annuncia le Lodi come un lutto e gli avvisi come un secco elenco d’ordini. Preferisco cantare stonati e allegri ma cantare tutti, piuttosto che elevarmi lo spirito ascoltando un bravissimo coro o un solista malinconico, e il richiamo severo a intonare bene, uniti con gli altri, mi fa venir voglia di gridare una nota a caso solo per affermare un’individualità.
M’inquieta chi rantola in fretta ilcorpodicristo senza guardarti negli occhi, e ti mette l’ostia in mano come fosse un bullone in catena di montaggio; chi cammina troppo svelto anche se non c’è nessuna urgenza di arrivare, e chi per sfoggio d’efficienza gli intima di muoversi. Mi indigna chi – tradendo quel che segue? – rinuncia alla flessibilità per obbedienza; chi antepone la regola alla persona, dimentico della guicciardiniana discrezione, e se di Sabato una pecora gli cadesse in un crepaccio la lascerebbe morire.
Divento insofferente e un po’ sarcastica, sentendo la retorica ripetersi e le solite parole entrare in qualunque discorso; mi lascia perplessa chi dice “morirei per il movimento e per Cristo”, mettendo quel movimento prima di Cristo; poi m’incupisce quella musica trionfalmente lugubre, così come l’abitudine a parlare cominciando dalla tristezza della gente, anziché dalla gioia di una speranza.
Forse non è ingiusta, ma di certo non mi muove affetto – anzi a tratti m’infastidisce – la schiettezza che sfuma in violenza, l’aggressività quasi derisoria di certuni – che pure serve a vaccinare dal buonismo, ma mai potrà commuovermi come quel prete che m’abbraccia o quell’amico che insiste a chiedermi di me.

Detto questo.

Ammiro l’onestà di ammettere l’immensità della domanda, la pretesa di sincerità e l’accortezza nello sgamare il vuoto dietro le frasi fatte. Mi interessa l’attenzione alla realtà concreta piuttosto che ai precetti da catechismo o alla definizione metafisica di Spirito Santo.
Forse, se trovassi per caso quei discorsi sopra un foglio abbandonato, senza firma e senza titolo, anzi anche senza parole (ché le loro parole sono come una firma), che riuscisse in qualche modo magico a comunicare tuttavia quei contenuti prescindendo dalla forma, mi piacerebbero un sacco.
Ma non è possibile.
Quindi continuerò a girarci intorno un po’ curiosa e a giocare argomentando, pur sapendo che questa casa non è mia, e non me ne posso innamorare.

Giovanni Giudici, Una sera come tante

Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un’altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti col giornale, i suoi guaiti commenti.

Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta con la bontà, qualche volta mentire.

Una sera come tante (quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusioni

siano le antiche speranze della salvezza;
o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente
la sorte di ogni altro, non volgare
letteratura ma vita che si piega nel suo vertice,
senza né più virtù né giovinezza.
Potremmo avere domani una vita più semplice?
Ha un fine il nostro subire il presente?

Ma che si viva o si muoia è indifferente,
se private persone senza storia
siamo, lettori di giornali, spettatori
televisivi, utenti di servizi:
dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,
in compagnia di molti sommare i nostri vizi,
non questa grigia innocenza che inermi ci tiene

qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.
È nostalgia di un futuro che mi estenua,
ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
la nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?

Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura
che dice: domani, domani… pur sapendo
che il nostro domani era già ieri da sempre.
La verità chiedeva assai più semplici tempre.
Ride il tranquillo despota che lo sa:
mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo.
C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà. [1]

Io mi ero messa d’impegno

e avevo detto ok, diamo un’occhiata al giornale, ché mica posso vivere solo tra un Dante e un Vittorio Sereni. Così sono andata su Repubblicapuntoit.

Titoli (piùomeno):

Qualcuno accusa Bertinotti di scarso senso dello stato, i comunisti chiedono a Prodi di smentire.
Ci si interroga su quale sarà il nuovo simbolo della Cosa Rossa.

Berlusconi accusa Casini di aver distrutto la Cdl e di simpatizzare per la sinistra; An invoca il cessate il fuoco, deputati assortiti dibattono se Tizio abbia davvero detto questo e se Caio non debba per caso smentire quello.

Il governo viene battuto in Senato sul decreto legge Sicurezza (nessuno sa cosa sia, ma tutti sappiamo che il governo è stato battuto) e Napolitano chiede meno conflitti.

Credo che tornerò a studiare. Forse anche il latino è più concreto.

[Qualcuno, vi prego, fondi un giornale che parli di fatti. Che censuri a priori tutti i battibecchi, le dichiarazioni e le smentite, e che invece spieghi bene quali leggi si stanno facendo, cosa dicono e perché si fanno. A margine, una notina per dire chi ha proposto cosa, giusto per avere un’idea di chi votare.
Il resto, chiacchiere.]

[Tommy, è il tuo momento :) ]

Valerio Magrelli, Ecce video

Ecce Video I.

In memoriam E. H.
ritrovato nel suo appartamento
nove mesi dopo il decesso
seduto davanti alla tv

Morì fissando il suo Televisore
la sfera di cristallo del presente,
guardava il Niente e ne vedeva il cuore,
cercava il Cuore e non vedeva niente.

Chi sfidò il lezzo del buio malfermo
si accorse che veniva dall’Illeso,
non dal Morto, ma dal Morente Schermo,
non dal Corpo, bensì dal Video acceso.

Carogna divorata dagli insetti,
il Monitor frinisce e brilla breve
senza più palinsesti e albaparietti.

La Sua vita larvale svanì lieve
(goal, quiz, clip, news, spot, film, blob, flash, scoop, E.T.),
circonfusa di niente, effetto neve.

Like I can face the day

Now that we’re here, it’s so far away
All the struggle we thought was in vain
All the mistakes one life contained
They all finally start to go away
Now that we’re here its so far away
And I feel like I can face the day
I can forgive and I’m not ashamed
to be the person that I am today.

(Staind, So far away)

[Ora che siamo qui, è così lontana
la lotta che credevamo inutile
tutti gli errori racchiusi in una vita
finalmente iniziano ad andare via
ora che siamo qui, è così lontana…
e mi sembra di poter affrontare il giorno
riesco a perdonare e non mi vergogno
di essere quel che sono oggi
]

Mi piace che si dica to face.
Non ve lo vedete, lo sguardo fermo di una faccia a muso duro contro il giorno?