Estetica ciellina

Ci sono motivi insensati e prerazionali per cui le cose (e le persone?) ci attirano o ci schifano. Poi ci costruiamo mille buone ragioni per nasconderlo, ma in fondo l’unica vera non-ragione è solo un ricordo che aggalla, una vecchia paura, un’abitudine antica, un’aspettativa da colmare.
Al di là di quanto possa apprezzarle razionalmente, alcune situazioni hanno una forma, un’estetica ch’è mia e mi ci ritrovo, come a casa; altre invece non mi appartengono, le sperimento per curiosità umana o interesse intellettuale, ma saranno sempre casa d’altri, dialetti diversi, il disagio freddo di dormire in un albergo e al mattino non trovare il bottone della luce lì al suo posto.

Questo fine settimana ho avuto a che fare col secondo genere di estetica. Non amo fare esercizi spirituali in ottomila dentro un padiglione da fiera, mi fa ridere l’omino serissimo che dirige i canti come marce militari, nonché la drammatica gravità di chi annuncia le Lodi come un lutto e gli avvisi come un secco elenco d’ordini. Preferisco cantare stonati e allegri ma cantare tutti, piuttosto che elevarmi lo spirito ascoltando un bravissimo coro o un solista malinconico, e il richiamo severo a intonare bene, uniti con gli altri, mi fa venir voglia di gridare una nota a caso solo per affermare un’individualità.
M’inquieta chi rantola in fretta ilcorpodicristo senza guardarti negli occhi, e ti mette l’ostia in mano come fosse un bullone in catena di montaggio; chi cammina troppo svelto anche se non c’è nessuna urgenza di arrivare, e chi per sfoggio d’efficienza gli intima di muoversi. Mi indigna chi – tradendo quel che segue? – rinuncia alla flessibilità per obbedienza; chi antepone la regola alla persona, dimentico della guicciardiniana discrezione, e se di Sabato una pecora gli cadesse in un crepaccio la lascerebbe morire.
Divento insofferente e un po’ sarcastica, sentendo la retorica ripetersi e le solite parole entrare in qualunque discorso; mi lascia perplessa chi dice “morirei per il movimento e per Cristo”, mettendo quel movimento prima di Cristo; poi m’incupisce quella musica trionfalmente lugubre, così come l’abitudine a parlare cominciando dalla tristezza della gente, anziché dalla gioia di una speranza.
Forse non è ingiusta, ma di certo non mi muove affetto – anzi a tratti m’infastidisce – la schiettezza che sfuma in violenza, l’aggressività quasi derisoria di certuni – che pure serve a vaccinare dal buonismo, ma mai potrà commuovermi come quel prete che m’abbraccia o quell’amico che insiste a chiedermi di me.

Detto questo.

Ammiro l’onestà di ammettere l’immensità della domanda, la pretesa di sincerità e l’accortezza nello sgamare il vuoto dietro le frasi fatte. Mi interessa l’attenzione alla realtà concreta piuttosto che ai precetti da catechismo o alla definizione metafisica di Spirito Santo.
Forse, se trovassi per caso quei discorsi sopra un foglio abbandonato, senza firma e senza titolo, anzi anche senza parole (ché le loro parole sono come una firma), che riuscisse in qualche modo magico a comunicare tuttavia quei contenuti prescindendo dalla forma, mi piacerebbero un sacco.
Ma non è possibile.
Quindi continuerò a girarci intorno un po’ curiosa e a giocare argomentando, pur sapendo che questa casa non è mia, e non me ne posso innamorare.