Che palle, ovvero: Sermonti vs Benigni

“Il suo modo di attualizzare Dante è divertente ma non si possono dire spiritosaggini e cose un po’ ovvie per adescare il pubblico. Questo non è un buon servizio fatto al Poeta e nemmeno agli ascoltatori. Ho 78 anni e mi dispiace lasciare il campo a questo tipo di divulgazione allegra. Dante è duro e severo e ci vuole durezza e severità per capirlo. E’ un’operazione delicatissima, che non si può fare alla buona”.

Certo che Benigni è alla buona. Pochi giorni fa ho studiato alla meno peggio il primo canto, sul Sapegno, e nella mia fancazzista ignoranza ne sapevo comunque di più di quanto ha detto lui ieri sera. Magari avrei evitato di dire che la Commedia è stata scritta perché Dio esista e simili vacuità ad effetto.

Ma Benigni ha fatto il miracolo di svestire la letteratura della sua aulica terribilità: e non costruendo altra pseudoletteratura similfuturista o trasformando in arte una scatoletta di merda, ma prendendo l’Arte, quella consacrata, quella del poeta laureatissimo, e liberandola dalle aule di stantii conferenzieri e accademici incartapecoriti che scrivono biblioteche su ogni verso. Se n’è reimpadronito, fregandosene degli anatemi intellettualoidi, e l’ha tradotta in una versione certamente semplificata, ma in grado di raggiungere coloro che altrimenti avrebbero ricordato soltanto il disgusto dantesco dei giorni scolastici, passati memorizzando contorte parafrasi. Quanto agli altri, nessuno gli vieta di sorbirsi dottissime lecturae dantis e ascoltare le cavernose recitazioni di Sermonti – che, fra l’altro, non mi risulta vadano deserte.

Quella sermontesca mi pare la spocchia di chi smerda Baricco perché non è Manzoni e Allevi perché non è Bach: appunto, Baricco e Allevi non sono Manzoni e Bach, sono qualcosa di diverso e hanno un pubblico diverso. Parte di questo pubblico potrebbe anche partire “dal basso” e avvicinarsi poi a un approfondimento, ma non dev’esser questa l’unica ragione di dignità per i divulgatori/intrattenitori (tanto più che, se quello di Benigni è intrattenimento in senso deteriore, le stronzate televisive cui siamo abituati che cosa sarebbero?!?).

Rivendico il valore del divertimento in sé, del piacere culturale semplice, tanto più quando tocca corde umane – forse banali, forse poco filologicamente accurate e poco letterarie, ma quanto umane!
Ricordo che i poemi cavallereschi, altra palla scolastica infinita (Sisto, ti voglio bene, ma l’Ariosto l’odiavo, ammettiamolo) venivano scritti per divertire la corte e diventavano bestseller. Nel Quattrocento fior di umanisti “s’abbassavano” a scrivere canti di carnevale a doppio senso osceno.

Ma noi abbiamo perso la capacità di trovare un bello “elevato” nel semplice. Forse perché quella stronza della società (è sempre colpa della società, nonché delle mezze stagioni che, si sa, sono assenteiste peggio dei dipendenti pubblici) ci circonda in effetti di banalizzazioni estreme; quindi, per difenderci, per distinguerci dalla marmaglia, preferiamo arroccarci dietro la complicazione estrema.
Che è il modo migliore per fa sì che la maggior parte della gente, scoraggiata, si arrenda alla banalità totale.