Perché le poesie suonano

Avete presente quando conoscete una persona solo per telefono, poi la vedete in faccia e vi dite nooo, pensavo fosse del tutto diversa?
Oppure quando notate da lontano uno fighissimo, poi apre bocca e ha una voce di merda?
O quando intravedete uno scorcio stupendo, poi vi affacciate meglio e c’è una ciminiera nel mezzo?

Ecco.

Ascoltare Ungaretti leggere poesie alla radio è stato più o meno così.
Il problema non è come ti calca le lettere, come allunga le erre, le pause, eccetera. Quello ci sta perfettamete, sennò la parola che scavata è / nella mia vita / come un abisso dove la mettiamo?
E’ che il pathos delle lettere quasi distrae da quello della scena, invece di sostenerlo. Come se, sul palco, mi mettessi a gesticolare incoerentemente con ciò che dico: nessuno seguirebbe più le parole. Il significante si magna il significato e prende una via diversa. O meglio, forse è solo diversa da quella che avevo immaginato io – che era meno violenta e più drammatica, meno rauca e più cantata, meno aggressiva e più triste. Come questa pietra / è il mio pianto / che non si vede dovrebbe spegnersi piano piano e restare lì delicatamente sospeso, come il pianto di una pietra muta, no?
No.

Giuseppe Ungaretti – Sono una creatura (ascolta in streaming)

E non lo puoi mica biasimare. Cioè, la poesia la componi pensando al suono, a come la diresti. Quindi se lui la legge in un certo modo, quello è il modo giusto.

Dunque di Ungaretti non ho capito un cazzo.
Ricominciamo.