Una specie di Dio

Passa traballando, di notte ai giardini; un tipo tarchiatello, l’aria poco lucida e uno zainetto sulla schiena. "Avete una sigaretta?" Ci guardiamo tra di noi, Borsa fruga nel pacchetto, ne tira fuori due.
Dopo un po’ ritorna, con un amico stavolta; stesso genere, poco più alto, poco più traballante. Mi guardo attorno, decidendo se sia il caso di avere un certo aristocratico timore. (Si sa mai, la notte, ai giardini, al giorno d’oggi. Senza contare le mezze stagioni).
Dev’essersi sparsa voce che qua si danno via le paglie; l’amico ne chiede ancora, ma Borsa non c’è più. Allora il tarchiatello dà un’occhiata alle bottiglie esposte sul marciapiede – Malfo ha fatto la birra in casa, e poi c’è lo spumante per festeggiar la Benny ch’è entrata a medicina – "Eh, non è che avete da bere anche un po’ per noi?"
Prima di darmi un sonoro ceffone interiore, faccio in tempo a ripassare mentalmente tutte le malattie possibili che avrebbero potuto sputacchiare nella birra.
"Prendete una bottiglia", dice Malfo.
"Sicuri?"
Sì, prendete. "Ma… state festeggiando qualcuno?" Mm, no. Mi viene in mente di accennar della Benny, così, per fare conversazione, per convincermi che con attorno altre dieci persone posso permettermi di parlare con un barbone, senza morire all’istante aggredita alle spalle. Ma poi c’ho pensato troppo e ho lasciato perdere.
Il tipo raccoglie la birra, ancora chiusa, senza ben crederci. "No perché… non vogliamo togliere niente a nessuno eh", precisa incerto. Poi saluta, raccatta l’amico e si allontana verso porta Castiglione.

E mentre lo guardavo bere controluce, pensavo fra me e me che doveva esserci una specie di Dio, incastrato in quella bottiglia. Un qualche tipo di Dio livido e sorridente, a cui non importa delle nostre pippe, dei catechismi e dell’eutanasia; uno che soltanto s’acquatta zitto zitto fra una panchina e una chitarra, passando in una sera di settembre.