Monthly Archives: Gennaio 2008

Giorgio Caproni, Congedo del viaggiatore cerimonioso

Amici, credo che sia
meglio per me ricominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi,
per l’ottima compagnia.

Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite, è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte;
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare.

(Scusate. È una valigia pesante
anche se non contiene granché:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare).

Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto s’io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al "vero" Dio.

Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.

Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.

Scendo. Buon proseguimento.

A GiorgioMastrota

[Risposta a questo commento]

Rispondo solerte all’acre mottetto,
pronta a ingaggiar una lieta tenzone:
per nessun verso mi sento in difetto,

e non per le lodi del buon Tartufone.
Qui scrivo infatti per puro diletto,
ché non m’importa di far rime buone:

dei misuratori ho poco rispetto.
Seguo il consiglio di quella scrittrice
ch’ha nome Virginia*, ed ebbe in dispetto

chi rese l’anima sua meretrice,
e senza vergogna d’un atto ‘sì vile
rinunciò a farla del ver portatrice:

ché dei tradimenti è già il più servile
sacrificare anche un solo capello
per onorar qualche legge di stile.

Poi ragionando di cosa sia bello,
che sia soggettivo è un detto arcinoto,
però una parola aggiungere’ a quello:

non faccio verso che sia di me vuoto,
e per chi è del cuore indagator mai dòmo
nulla è più bello di un sincero moto,

amando, più delle lettere, l’uomo.
 

—- 
* "No, per quanto sia delizioso il passatempo di misurare, è sempre la più futile delle occupazioni, e sottomettersi ai decreti dei misuratori, il più servile degli atteggiamenti. Finchè scrivete ciò che volete scrivere, questa è la sola cosa che conta, e se conti per un giorno o per un’eternità, nessuno può dirlo. Ma sacrificare un capello della vostra testa, della vostra immagine, una sfumatura del suo colore, per far piacere a qualche direttore di scuola con un vaso d’argento in mano, o a qualche professore con il suo campione di misura nascosto nella manica della giacca, quello è il più vile tradimento."

(Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé)

Buoni propositi

Ma no, non voglio rivendicare legalmente la proprietà di metà casa, via, tra sorelle. Le dirò che ho pensato di utilizzare la stanza che mi spetta, e che potremmo arredarla insieme – anzi, magari è contenta d’avere una scusa per sistemare la sala; io ci metto anche i soldi, dai, poi potremmo unire le complementari conoscenze, io non ho gusto estetico, lei non distingue un mouse da un telecomando, perfetto, lei sceglie il divano, io cerco il lettore dvd; poi sai mai che sia un’occasione, via ci siamo ignorate vent’anni ma siam grandi sarà anche il caso di superare certi schemi di comportamento, e magari è la volta buona che ci ritroviamo avrà dei lati buoni che non so e sì è proprio ora di fare questo tentativo

– Se vieni a stare da me, io cambio città.

Simpatia.

Il sospetto poetico

[Banalità che si pensano leggendo Università Aperta a colazione] 
[Era un po’ che non si fabbricavano spilli per inculare mosche, eh?] 

"Arrischio questa ipotesi: Dante ha voluto non che pensassimo che Ugolino abbia mangiato la carne dei suoi figli, ma che lo sospettassimo".
(J. L. Borges)

Ora, potremmo dire che l’argentino non arrischi poi molto, dato che il De Sanctis un secolo prima aveva già notato la possibilità di interpretare in vari modi quei versi ("Tutto questo può esser concepito, pensato, immaginato; ciascuna congettura ha la sua occasione in qualche parola, in qualche accensione d’idea"), ed è noto che Dante non scriveva cose a caso.

Ma di questo non mi frega granché. Invece, volevo cogliere l’occasione per un’apologia dell’ambiguità poetica: quella cosa meravigliosa che dà lavoro a tanti mangiapane a tradimento, i quali possono scrivere tomi e tomi di congetture su un verso; quella che consente a studenti di letteratura contemporanea d’improvvisar parafrasi per poesie mai lette, e prenderci lo stesso.
E, soprattutto, quella che dà un senso al poetare.

Perché se io voglio esprimere un concetto, voglio che arrivi chiaro, definito, incontrovertibile, scrivo un paragrafetto in prosa, ci riassumo i miei credo sul mondo e tutti li comprenderanno senza equivoci. Dopodiché possiamo iniziare tranquillamente a filosofarci su.
Se invece mi sforzo ad arzigogolare versi oscuri, le possibilità sono due (sovrapponibili):
1) Sono narcisista, masochista, elitario, bisognoso di fumo per coprire mancanze d’arrosti.
2) Voglio esprimere un casìno, un guazzabuglio di sensazioni sfaccettate, una complessità poliedrica, un’incertezza, un gioco di specchi. Voglio che una parola significhi una cosa ma te ne ricordi un’altra e suoni come un’altra ancora, così con una parola sola ti accennerò tre cose, e tu lettore, se avrai la pazienza di non scappare ma aprirai un po’ l’immaginazione, in qualche modo inspiegabile nel loco d’ogne luce muto vedrai lo scotch che imbavaglia il sole e ti sentirai premere dal buio nell’accalcarsi di o e di u

Però, c’è un però che mi attanaglia.
Il gioco di specchi funziona se c’è qualcuno, di qua, a specchiarsi. Una parola può ricordarne un’altra se c’è qualcuno, di qua, a ricordare. Da ciò discende la banalissima banalità che la poesia – come un libro, come un’idea, come me – trova senso e vita nella sua comunicazione.
Cosa che, diciamocelo, non avviene. Nessuno legge poesia, via. A momenti nemmeno io, beh io un po’ sì, ma mi obbligano, e poi la colonna lì a sinistra andrà pur aggiornata ogni tanto.

A questo punto, è troppo facile dire che il popolo è bue e noi, nobili bovari, non ci possiamo far nulla (dove quel noi comprende letterandi, letterati, poeti, poetucoli, vendiparole, insegnanti, blogger, ecc.). Se anche il popolo è bue, lamentarsene non servirà a de-bovizzarlo – cosa in sé trascurabile, ché anche ruminando si può viver felicissimi. Piuttosto, mi dispiace per le pasticcerie chiuse.

Dico, immaginate di passar davanti a Fontana (pasticceria i cui effluvi nel portico vincono per un tratto quelli della via Emilia), di avvicinarvi sentendo l’odore, di sbavare spiaccicandovi sulla vetrina come un insetto smarrito, cercare spasmodicamente la porta e trovarla sbarrata, con un cartello che avverte: "Tesoro, fatti qualche anno sui libri, pigliati una laurea in Bignettologia e poi torna".
Là dentro, intanto, c’è uno chef misantropo che continua a produrre tonnellate di dolciumi senza saper dove metterli (ché a mangiarli tutti lui ci sarebbe già morto). Ogni tanto lancia uno sguardo fuori, vede la gente passare e andarsene, e bestemmia lamentandosi che a nessuno piacciono i suoi dolci. 

Capite, c’è una contraddizione.
Che naturalmente non saprei come risolvere, dato che, in effetti, anche il punto 2) di cui sopra è una realtà, e costringere lo chef a cucinare solo piadine sarebbe ugualmente frustrante. Se togliamo l’ambiguità alla poesia, tanto vale non scriverla; ma se nessuno s’azzarda a sospettare, è come non scriverla lo stesso.
Sì, ho tirato tutta questa pappardella per concludere che non so concludere.

[Quindi, dite a Vasco che "voooglio trovare un senso alla poesia" sarebbe stato ugualmente privo di risposta, ma almeno più metricamente accettabile di "aquestasituazione".]

Non sono io

v e evey ballano

 

– C’è un viso dietro questa maschera, ma non sono io. Io non sono quel viso più di quanto non lo siano i muscoli che lo abitano o le ossa ancora sotto i muscoli.

– Capisco.

– Grazie.

[In attesa di qualcuno che risponda: capisco.]

(Comunque V per vendetta, a parte la tendenza all’americanata, è proprio un bel film)

Giuseppe Ungaretti, Fratelli

Di che reggimento siete
fratelli?
 
Parola tremante
nella notte
 
Foglia appena nata
 
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
 
Fratelli

Giornata mondiale per la pace.

edificio in fiamme in kenya e, davanti, bandiera della pace
 
(senza parole)