L’ho sfogliato

un poco, al fresco, da sola; girando le solite pagine logore, sempre più spesse. Così, a volte passo il tempo guardandolo passare.
Mi viene incontro in bicicletta, correndo dritto dalle medie, frena e mi domanda che farò, come sto, e per il resto?
Oppure passeggia con la madre e senza fermarsi mi lancia un saluto impettito, che non guarda nemmeno (allora salta qualcosa dentro, e mi ricordo i sorrisoni di una volta e quel semplice voler bene – ma non siamo più capaci, non siamo).
O ancora soltanto mi aspetta per strada, dietro un angolo speciale, sotto la vecchia scuola, davanti casa; o dorme dentro a qualche nota già sentita, s’acquatta fra le righe dei graffiti nei muri, spunta da un sole strano incastrato tra le foglie, e si risveglia.

Mi andava di restare lì, ai bordi della gente di domenica nei parchi, del jogging, delle coppiette, dei bambini che urlano dei cani a rincorrersi dei vecchi a braccetto degli alberi che stanno a guardare. E lì sfogliavo le mie foto, ora che quasi non gridano più, ché si sono assuefatte anche loro a svanire. Ma io le sento pesare nelle tasche, so che si moltiplicano si accumulano fradice di tempo s’aggiungono aumentano inseguono coi giorni, si schiacciano le une sulle altre e si accartocciano e comprimono e ogni tanto qualcuna esplode via e mi salta addosso, riscossa da una musica uno scorcio o una foschia di notte. E io, io portandole non posso rassegnarmi a questo istante che s’accende, a un tratto vive, poi trascorre e inspiegabilmente muore.