Il filo

E ora cosa le dico, a quella cui avevo spiegato, tutta entusiasta, che basta provare. Che sì, hai meno possibilità, certo, ma basta aumentare i tentativi per tornare al pari degli altri.
E’ così rassicurante pensare che dipende da te.

Qualche anno fa, andai a trovare un’amica, mentre stava facendo un campo di volontariato. La casona si allargava su un colle, immersa nel verde, con vista sulle vallate. Gli altri andavano a letto troppo presto; così, una notte, rimasi nel parco finché non spensero tutte le luci. Trovai un punto da cui abbracciare bene il buio, e rimasi a domandarmi da che parte stavo.

Avevo visto, quel giorno, decine di senza speranza -- dove senza speranza non è una qualunque frasina pietosa, ma la descrizione esatta di uno status: quello di chi non sarà mai amato.
Matti, molti; prigionieri del corpo, altri -- i più angoscianti. Sapevo che, per la società, avevo qualcosa in comune con loro, potevano anzi chiamarmi con lo stesso nome. Ma la realtà è più variegata e io non sapevo fin dove arrivava l’insieme intersezione tra me e loro. Non sapevo se era così grande da contenere anche quella dis-perazione, e mi tormentavo cercando di tracciare il confine. Di qua -- i salvati -- o di là -- i sommersi. E io?

Ti salverai, andrei a dirmi, se potessi ritrovarmi in quella notte. Sarai amata. Siederei accanto a me stessa, affacciata sul nero butterato di luci, e mi consolerei.
Allora lei mi sorriderebbe, credo, ma di gioia agghiacciata. Come le offrissi l’ultimo posto su una scialuppa, mentre il resto della nave affonda.

E ora cosa le dico, all’altra passeggera. Scusa, sai, ti hanno anche osservata per un po’, ma poi hanno scelto me, per questo posto in salvo -- e non è che me lo meritassi, no, non ho fatto assolutamente nulla, sono solo più fortunata per nascita, per caso.

Una fortuna, fra l’altro, da ridecidere ogni giorno. Una monetina caduta dal lato sbagliato e, tac, eccomi d’un colpo di là del confine. I normodotati rimuovono il rischio, di solito. Sono così sicuri del proprio corpo da non figurarsi mai l’eventualità di perderlo, ferirlo -- come se non fosse poi certo, che, presto o tardi, si acciaccherà.
Ma io conosco la precarietà. Ho assaggiato la perdita improvvisa di qualche pezzo di me stessa, e ho visto bene -- ma dai -- che, anche senza quel pezzo, me stessa rimane sempre lei. Che c’è un filo a tenere assieme i miei fragili frammenti, e non importa quanti ne perderò, perché io sono il filo.

Ma il filo è nascosto, e nessuno lo nota. Sorride se qualcuno si affeziona ai pezzi che trattiene, al suo travestimento; a volte però piange, aspettando -- forse invano -- chi potrebbe amarlo anche da solo.

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