Indignazione.

Allora.
Questo testo l’ho pescato su internet. La questione trattata è la sessualità dei disabili e, in particolare, quella di chi ha malattie trasmissibili ai figli. Al che mi sono fischiate le orecchie, e ho letto. Ahimè.

L’autrice si chiede: Si deve collaborare con Dio a non generare dolore? La risposta è affermativa – e fin lì, volendo, si poteva anche concordare. In tutto il testo, però, la contraccezione non viene mai citata. Dunque, indovinate come viene risolto il problema?
È auspicabile che una persona affetta da patologia fonte di handicap fisico geneticamente trasmissibile non eserciti la propria genitalità ma viva ed “inventi” l’esercizio della propria sessualità in modo sublimato e trascendente, mantenendo intatta e se e possibile migliorandola, la propria “salute sessuale” e mentale. Si, insomma, quella salute che tu hai perso da tempo, affogandola nell’acqua santa. ”Ammettendo” l’esistenza di una sessualità anche per gli handicappati, (la ammettiamo? Ah, ma tra virgolette, mi raccomando!) si può rivalutare la visione della sessualità in generale, tentando di abbattere i numerosi tabù e stereotipi imperanti. In tal senso si vuol rilanciare una sfida socio-pedagogica incentrata sul “servizio”. Tale sfida deve saper proporre una sublimazione (!) intelligente e ricca di spunti, suggerendo un’alternativa viva all’esercizio, in questi casi per molti versi “castrante”, dell’apparato riproduttore.

E quale sarebbe l’edificante alternativa?
Il portatore di handicap fisico geneticamente trasmissibile può intuire, talora non senza sofferenza, l’opportunità di fermarsi al gradino dell’Amicizia, che potrà rendere particolarmente intensa, (ah beh, questo sì che mi rincuora!) mettendosi in condizione di avere parecchi Amici. In tal modo […] sarà un “superdotato”, sopperendo così ad “altre carenze” e vivrà gradino dell’Amore, in maniera un po’ speciale.
Istruzioni: prendere una frittata, lanciare in aria la frittata, rivoltare la frittata.
Ora, trasformare un limite in un vantaggio è, in generale, una cosa positiva: se hai una difficoltà, fai bene a cercare qualche modo utile di sfruttarla. Spacciare un limite per vantaggio è già più ipocrita, tipico di chi rifiuta di affrontare la realtà per come è, dipingendosela con colori più sopportabili.
Ma inventare un limite che non esiste, e poi vendertelo come privilegio, è una violenza. Una violenza verso la realtà, totalmente manipolata, e verso le persone, quelle che ci cascano, che ci credono, e rinunciano certe esperienze solo perché sono convinte di non poterle fare – e pensano che, in fondo, sia meglio così.

L’elogio del contentino-amicizia prosegue: occorre educare la persona all’Amicizia che può vivere pienamente arricchendola di profondi significati. […] L’amicizia infatti ha a sua disposizione innumerevoli modi di esprimersi in cui il corpo può avere la sua parte senza dover ricorrere alla genitalità. […] Infatti anche quando non vi è un rapporto genitale, ma la “compenetrazione” affettivo-amicale è grande, si può raggiungere quella gioia, rasserenata e rasserenante, che a detta di psico-sessuologi è il prodotto meglio riuscito di un vero atto sessuale, frutto d’amore. Tale possibilità è offerta anche alle persone portatrici di handicap!
…Ma grazie! Troppo gentile!

La promozione di un vero amore d’amicizia […] è la sfida vincente in questo complesso settore dell’umana sofferenza (”settore dell’umana sofferenza”? é.è). Tale amore diventerà per il portatore di handicap (geneticamente trasmissibile) “il” modo alternativo dell’esercizio della propria sessualità e sarà modo concreto di raccogliere la “sfida”, che in termini cristiani è vocazione!
…’Azzo, hai capito… astinenti di tutto il mondo, perchè dite di essere sfigati? C’avete la vocazione!

Solo che alle vocazioni, di solito, si può rispondere liberamente. Non mi risulta che il Padreterno sia mai sceso a prendere un tizio per la collottola, trascinarlo in seminario e fargli pronunciare i voti sotto minaccia di fulmine divino. Queste cose di solito le fanno gli uomini.
Anche la nostra autrice coglie la differenza, distinguendo il celibato volontario per il Regno, proveniente da vocazione comunemente intesa, e il celibato “involontario”, indotto da patologia, ma liberamente e consapevolmente “riscelto” come “vocazione-sfida”.
Indotto da patologia? Uhm, non sapevo esistesse il Morbo del Celibato. Una malattia che ti piglia e t’impedisce di innamorarti. Sarebbe un po’ triste, eh.
E invece, non solo il Morbo del Celibato, secondo l’autrice, è automaticamente connesso a tutte le malattie genetiche – sei malato? Sarai single – ma te lo devi pure riscegliere. Cioè, ti deve piacere, e devi stare contento d’esser zitello/a. Mica azzardarti a combatterlo eh! Non ci provare, a infatuarti di qualcuno, ché poi ti vien voglia di portartelo a letto e, siccome non vuoi far figli, dato che sarebbero malati, cadi nella tentazione di usare qualche contraccettivo satanico! Pape satan aleppe!

Si conclude così: è parso utile intervenire al proposito offrendo uno spunto di riflessione che incoraggia la riscoperta di una castità gioiosamente vissuta e piacevolmente “interpretata”!
A me non pare molto gioiosa, come interpretazione. Casomai, mi sembra la visione rassegnata e un po’ frustrata di chi ha avuto bisogno di elaborare una teoria consolatoria per le proprie disgrazie; ma so che purtroppo non è nemmeno così, non posso liquidarla come la visione personale di una signora qualunque. Questo articolo stava su un sito di bioetica, e ogni tre righe rimandava a saggi altisonanti di qualche pensatore cattolico; ho il nefasto presagio che sarebbe ampiamente condiviso da zio Ratzy & C..

Per la cronaca, conosco l’autrice. Telefona spesso a casa mia e l’ho vista giusto l’altro giorno. Và, è pure simpatica, a prima vista.
Sempre per la cronaca, è disabile. La prossima volta che la becco indago se è sposata/convivente/morosata.
Secondo me, no.