Limbico – 3

Non ero mai entrata in un reparto psichiatrico. Lo immaginavo confusamente come un luogo pericoloso, dalle architetture carcerarie, in cui le visite venissero rigidamente regolate, e magari filtrate da qualche dottore incaricato di stabilire se il visitatore avrebbe traumatizzato il paziente.

Ho aspettato fuori dalla porta blu non so quanto, senza decidermi, scorrendo le bacheche con le informazioni sulla privacy e sui gruppi di “auto mutuo aiuto” e il cartello “zona videosorvegliata”. Ho visto passare un paio di volte qualche infermiere, ma non ho avuto la prontezza di chiedere. In compenso ho notato che, per uscire dalla porta blu, dovevano aprirla con una chiave.
Alla fine ho fermato tre infermieri che uscivano ridendo a voce troppo alta.
– So che una persona che conosco è ricoverata qui… e… ehm..
Un’infermiera bassina mi guardava con aria disponibile. Ho pensato che dovevo avere un’espressione parecchio spaesata.
– Ecco.. qual è l’orario di visita?
– Dalle 17.30 alle 18 – mi ha risposto.
– Ah. Ma.. ecco.. poi.. cioè se torno in quell’orario poi posso entrare, cioè, io non so nulla, non so se può ricevere visite….
L’infermiera era perplessa. Iniziavo a sentirmi un po’ scema.
– Non so se c’è ancora il medico. SPINEDIIIIIIIIIII! – ha urlato.
– Oooou! – ha risposto una voce lontana.
– Ecco, visto, c’è! – ha sorriso lei – Venga qui che c’è bisogno di lei! – ha urlato di nuovo. Poco dopo è apparso un pelato in camice.
– Ou, cosa c’è?
– Qui c’è bisogno di lei, e lei non se ne accorge, dottore! – ha detto allegra l’infermiera (sempre a voce troppo alta).
– Ma io che ne sapevo che c’era bisogno di me!
– C’è una signorina che chiede, dottore.
Al che si è voltato, accorgendosi di me, e ha cercato di darsi un tono.

Io cominciavo a temere che lavorare coi matti fosse deleterio.
Il medico era di quello di guardia, non conosceva *** e non mi ha saputo dire nulla, se non che senz’altro sarei potuta entrare nell’orario di visita.

Mancavano più di quattro ore, e non avevo voglia di tornare a casa. Ho passato un po’ di tempo fuori dall’ingresso del padiglione; era una bella giornata.
Una signora fumava a qualche metro da me. Forse era parente di qualcuno. Avrei voluto chiederglielo. Avrei voluto dirle sa, io non so niente di queste cose, mi avevano solo invitato a pranzo, era una persona così interessante, insolita, si figuri sembrava quasi che dovessimo diventare coinquilini, ma guarda te, poi invece era un matto, oddio in realtà non lo so, potrebbe avere qualunque cosa, però sa, io mi faccio dei gran viaggi mentali perché non so niente di queste cose, dicono psichiatrico e fa paura, ecco, perché è una cosa sconosciuta, non è come se ti rompi una gamba e più o meno sai quello che succede, se sei psichiatrico non si può mai dire.
La signora ha finito la sigaretta ed è andata via. Poco dopo mi ha camminato davanti un uomo in pigiama, con lo sguardo fisso; mi è passato troppo vicino ed è andato a sedersi al posto della signora.

Ho lasciato la macchina parcheggiata dov’era e ho passeggiato un po’ a caso. Ho trovato una gelateria, ho pranzato con un gelato e poi sono rimasta lì un’oretta a leggermi quasi tutto il Corriere della Sera. Poi ho ripreso ad andare, e mentre andavo immaginavo di raccontare, come sempre quando mi succede qualcosa. Racconto e racconto e racconto nella testa, tante volte finché il racconto viene bene, e poi di nuovo cambiando interlocutore, perfezionando i dettagli, i commenti.
Sono finita in un parco. Mi sono distesa sul prato, sotto un albero, ascoltando i discorsi di due vecchiette sulla panchina accanto.

Mancava ancora tanto tempo da aspettare. E c’era una tale pace.

[…continua…]