Limbico – 2

Ammetto che un po’ me lo aspettavo. Era quell’altra cosa.
Il presagio mi veniva da un suo racconto vago: mi aveva detto di un soggiorno recente presso una casa di cura particolare, un luogo tranquillo dove aveva trovato pace. Da cosa, non mi era ben chiaro.
A questo punto ero decisa a dare contorni più definiti a quel cosa. Forse non volevo più cercare *** per vederlo – non sapevo nemmeno se avrei potuto vederlo – ma almeno per carpire qualche informazione da un dottore di passaggio, un infermiera, o la sua faccia.

La sua faccia. Come dovrebbe essere la faccia di un matto? E che matto sarà? Potrebbe essere un violento, di quelli che sembrano normali e poi esplodono, forse mi sono cacciata in un guaio, forse dovrei scappare finché sono in tempo, finché non lo conosco, finché non gli voglio troppo bene.
Ho guardato il braccialetto colorato che mi aveva regalato l’altra mattina. Ne aveva presi due da un marocchino che ci aveva impezzati al bar; lui si era legato l’altro al suo polso grande il doppio, poi l’aveva annodato a me, commentando affettuosamente che un braccino così sottile veniva voglia di proteggerlo.

Sono andata all’indirizzo che mi ero fatta dare dall’omino dello sportello. Ho parcheggiato la macchina e ho cercato di orientarmi tra le indicazioni dei vari padiglioni: Oculistica, Prelievi, Padiglione Uno. Psichiatrico non c’era da nessuna parte. Ho raggiunto un enorme pannello nero, con disegnata la mappa di tutta l’area ospedaliera, e accanto una fittissima lista di nomi. P, P, P, Presidio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, eccolo.
Ho pensato che devono aver scelto un nome così perché pare più rassicurante, accanto a “psichiatrico” c’era “diagnosi e cura”, insomma, qualcosa che dà speranza. Di fianco a “Presidio Psichiatrico di Diagnosi e Cura” c’era un quadratino azzurro spento. L’ho cercato nella mappa e corrispondeva all’ingresso che avevo davanti: Padiglione Uno.
Chissà perché non chiamano le cose con il loro nome.

Allo sportello informazioni c’era un signore coi capelli unti che guardava una piccola tv. Non mi ha sentito arrivare, al mio “scusi?” è sobbalzato e ha spento in fretta. Ho detto il nome del paziente che cercavo. Quando l’ha trovato, sul monitor, ha alzato le sopracciglia.
– E’.. ecco… guardi… è di là, a destra, ora in teoria non sarebbe orario di visite, perché vede è.. è…
– E’ allo psichiatrico, lo so.
Cominciava a urtarmi l’onnipresente censura su questo nome. Avevo bisogno di essere rassicurata, non di un impiegato che balbetta.
– Ecco appunto. L’orario è dalle 17.30 alle 18. Però può provare a suonare, guardi giri a destra dopo la fila di sedie…

Dopo la fila di sedie c’era finalmente un’indicazione col nome giusto; l’ho seguita e sono arrivata di fronte a una porta metallica blu, chiusa, con una specie di piccolo oblò su ogni anta. Era ancora l’una, decisamente troppo presto. Sono rimasta in quell’angolo di corridoio senza finestre, un po’ buio, con alcune sedie da sala d’attesa fissate a una parete. Non c’era nessuno.

[…continua…]