Limbico – 4

Alle 17.28 ho suonato il campanello. L’infermiera mi ha aperto la porta blu con una gentilezza serena, molto rassicurante.

La prima persona che ho visto oltre quella porta si chiama A.. Me la ricordo molto bene. Andavamo alla stessa scuola elementare e lei era il mio incubo, perché correva e abbracciava tutti stringendoli troppo forte, e se avesse abbracciato me allo stesso modo mi avrebbe fatto male. Mi ha guardato, lì dietro l’uscio, con quella sua bocca semiaperta sul corpicino magro e scattante. Ho avuto istintivamente paura, e ho cercato di allontanarmi più in fretta possibile. Lei mi ha detto: “Ciao”, ma ero già troppo lontana per rispondere.

– ***? Certo, prima era in sala, vediamo… – ha detto l’infermiera, quando le ho chiesto di lui. Sala? Ok, forse niente celle stile carcere, c’è pure la sala. In effetti era un ambiente luminoso, con un paio di tavoli, la macchinetta delle bibite, larghe finestre e una porta aperta: oltre, s’intravedeva un giardino e la testa di *** al di là dei vetri.

– Che piacere vederti, che sorpresa! – mi ha detto, affacciandosi dentro, e mi ha dato i due bacetti di rito.
Ok, la faccia di un matto era esattamente quella che conoscevo, né più né meno. E anche la voce, e anche l’entusiasmo al vedermi. Questa faccenda dello psichiatrico pareva sempre più complicata.

Mi ha fatto uscire nel giardino. L’aria profumava di non so che pianta e l’atmosfera era lenta, senza rumori; qualcuno passeggiava, qualcuno chiacchierava piano. C’erano altre persone, ma non tante da non poter restare soli. Al massimo, vedevi una ragazza avvicinarsi mentre inseguiva un gatto.
*** mi ha accompagnato a una panchina un po’ in disparte e si è seduto di fronte a me. L’ho osservato, nella luce calda del pre-tramonto, cercandogli nel viso una risposta, una spiegazione di cosa fosse quella cosa da cui doveva trovar pace.
Mi è sembrato avesse più capelli bianchi e come un’ombra attorno agli occhi, ma forse era solo suggestione.

Mi ha raccontato di quando, mentre studiava in biblioteca con una collega, all’improvviso si è sentito smarrito. E tutte le cose intorno diventavano distanti, inaccessibili, e lui inaccessibile alle cose, in un’irrisolvibile separazione, con solo la voglia di andare lontano, via da quell’insieme di cose che sono lì ma non sono te.
– Prova a immaginarlo – mi ha detto – come ti sentiresti se ti capitasse così?
Ci ho pensato un po’. Facevo molta fatica a immedesimarmi. Credo mi farebbe paura, una paura tremenda di solitudine totale.
– Sola – ho risposto, guardandolo negli occhi. L’avevo sempre guardato mentre parlava, ma ora volevo guardarlo esattamente negli occhi castani, esattamente dentro. – Mi sentirei molto sola.
Ha annuito piano.
Poi mi ha spiegato del tatto, di come diventava abnorme anche la percezione usualmente ignorata di un tavolo sotto le mani.
Mi sembrava di sentire Sartre descrivere la sua Nausea.

Lentamente ho ricostruito la storia che mi aveva solo accennato: qualche tempo fa aveva avuto un attacco di ansia simile, e per questo motivo era stato ricoverato in quella casa di cura di cui mi aveva accennato. Dopo una decina di giorni era andato via, sentendosi meglio, ma ora voleva tornarci.

– E’ così pacifica – diceva. – Anzi, limbica. Un mondo sospeso, questo giardino al confronto non è niente. Se avessi una stanza e una biblioteca ci starei tutta la vita – sorrideva. – E poi amo la compagnia di persone singolari.

Ecco perché ci siamo incontrati.

Una ragazza si è avvicinata e gli ha chiesto di restituire un centesimo alla sua amica. Lui l’ha guardata con molta tranquillità, spiegandole di non aver mai prestato un centesimo alla sua amica. Lei ha insistito un po’, poi, perplessa, si è allontanata.
– Vedi – mi ha spiegato – ci sono quelli così, o quelli che vivono completamente scollegati dalla realtà, come quel signore laggiù, che parla con la sua mano. Con molti altri invece si può parlare normalmente, sono come me e te…

Ho avuto un brivido a quell’inclusione: io, come lui? Lui, come gli altri? E quali altri? Dov’era esattamente la follia in quel giardino, chi erano i sommersi e chi i salvati? Chi è che passava per curarsi un disturbo come un’infezione, e chi invece restava parcheggiato nel suo vuoto di esistenza?

La mezz’ora scorreva in fretta. Mentre lo ascoltavo, temevo che mi sarebbe sfuggito quell’attimo sospeso prima di avergli rubato ogni odore, e le sue parole prima di avergli preso la verità e il mio silenzio prima di averlo rotto in una confessione – volevo dirti com’era stato cercare il tuo nome in ospedale e girovagare quel pomeriggio in attesa e la paura di trovarti diverso e poi il sollievo di trovarti uguale e allora il dubbio di scoprirti un giorno qualcos’altro che non so, qualcosa che mi sfugge.

Infatti non ne ho avuto il tempo. Un’infermiera ha invitato i visitatori ad uscire; *** mi ha riaccompagnato alla porta blu.
Passando, si è fermato accanto a una pianta di bacche e ha abbassato un ramo, per farmi sentire meglio il profumo del giardino.