Vorrei essere – 3

Poi ha chiesto a Maria di leggere la poesia.

…Vorrei essere una lacrima per accarezzarti il viso
vorrei essere un asciugamano per abbracciarti
vorrei essere una spugna per passare sulle tue nudità
ma non posso toccarti, nemmeno sentirti sulla pelle
non mi resta che scrivere di un sogno…

– Ti piace? – mi ha chiesto lui.
– E’ triste – ho risposto, molto in fretta. Quando ho sentito la mia voce uscire così in fretta, ho intuito che aveva saltato il controllo al posto di blocco sull’opportunità delle parole.
РPerch̩?
РPerch̩ parla di un sogno che non puoi realizzare.
Ogni tanto mi domando se la mia sincerità sia una dote o un’insensibilità. Non so come ho fatto a dire una cosa del genere a uno sconosciuto di cinquant’anni, che da otto vive grazie a un aggeggio che lo fa respirare, scrivendo poesie su buoni sentimenti. E’ che me ne avevano parlato come di uno con cui molti si confidavano, uno a cui mandavano i nuovi pazienti perché trovassero motivazioni per vivere. Non potevamo parlare del tempo. Sentivo di dover mettere in gioco me stessa – e me stessa com’era, con le sue aggressività e debolezze, non la versione riveduta e corretta dai libri sull’ascolto attivo e dai seminari sull’empatia.
– E perché non posso? – ha chiesto, con un tono da “e chi lo dice?”
– Sei tu che lo dici… tu ne parli come di un sogno che non puoi realizzare.
Me la sono cavata così, spacciando il mio commento per interpretazione del testo, invece che della mia paura.
– Eh vabbè…
– Cosa mangi per cena? – si è intromessa Maria, a voce troppo alta. Brandiva il foglio del menu in cui i pazienti scelgono ogni volta tra tre o quattro portate.
Poco dopo è uscita per consegnarlo agli infermieri, ed è calato un nuovo, più difficile silenzio. Io ero impegnata a ragionare del mio senso di colpa; lui, non so su cosa.

Dopo un rapido giro su tutti gli angoli della parete, il mio sguardo ha incrociato il suo.
Ed è rimasto lì agganciato molto, molto, molto più tempo del consueto, facendo tutto un suo discorso che non so.