Non sono i 150

(per ora) morti che mi preoccupano.

Ma tutti gli altri.

Qualcosa mi dice che, tempo uno o due mesi, l’ospedale dove lavoro pullulerà di accenti abruzzesi.

[Matteo l’educatore girava inquieto, attaccato al cellulare, stamattina. E’ anche un volontario di protezione civile e, come prevedeva, è stato richiamato. Entro un’ora sarebbe partito per l’Abruzzo.
– Mi dispiace per la gara di mio figlio – ha detto, mentre rassettava le ultime cose in ufficio. – E’ la sua prima gara e gli avevo promesso di esserci…
– Sei pronto? – gli ho chiesto. Sentivo che c’era spazio per due chiacchiere, per quanto fosse indaffarato. Lui si è fermato un momento.
– No.
Non tanto per quel che avrebbe dovuto fare, diceva, ma per le diatribe da affrontare. Mi ha spiegato dei piccoli giochi di potere con cui si trastullano i capetti mentre qualcun altro muore o scava.
– E poi sai – ha aggiunto, aggrottando la fronte – andando a stare là… certo, siamo sistemati in posti sicuri, finché stai in una tenda… però… quando sono andato in Puglia e mi mandavano ad installare le centrali operative dei soccorsi in qualche edificio, sai com’è… facevo più in fretta che potevo e uscivo!

Poco dopo ci ha salutati e il suo giubbetto rosso è sparito dietro le scale. In bocca al lupo.]