Ci vediamo nel tuo disegno – 1

– Ti serve una mano per disegnare?
– Sììì! – ha risposto entusiasta. Giorgia era salita in sala informatica con l’album da disegno incastrato dietro la schiena e il sacchettone di matite posato sulle gambe. Ci siamo messe al tavolo della sala informatica, le ho infilato le dita nell’elastico che usa per tenere la matita, e ho tirato fuori dall’album uno scorcio di Calabria ancora bianco per metà, con colorato solo il mare.
Era l’ultimo giorno.

Un paio di giorni prima, Giorgia si era offesa.
Mi stava spiegando come funzionava il programma che usa per comporre musica, Cakewalk: un pentagrammone virtuale su cui cliccare le note di un’intera orchestra, volendo. L’aveva già usato per comporre un pezzo dedicato a Matteo l’educatore, e poi un altro per me, Ilaria’s Blues. Quel giorno aveva pensato di farmi una lezioncina di musica su Cakewalk, ma eravamo cadute inesorabilmente nel gap tra la sua laurea in pianoforte e la mia stentata capacità di leggere in chiave di violino.
– Dài, scrivi tu le note – mi diceva. Certo, quali?
Alla fine si è rassegnata a scriver lei, dandomi qualche spiegazione sommaria, mentre io annuivo sforzandomi di seguirla e annoiandomi vagamente. Giorgia aveva già tentato di darmi qualche lezione teorica sugli accordi, ma un po’ l’allieva scarseggiava in memoria, un po’ avevo beccato l’insegnante in un periodo della sua vita in cui soffriva di rapida insofferenza – per motivi più seri della mia ignoranza. Così, la guardavo smanettare con Cakewalk impegnandomi a fondo per non deluderla quando mi domandava qualcosa – ottima tecnica per fallire, dato che occupa metà del cervello nel sentirsi a disagio.
A un tratto sono arrivati a trovarla alcuni amici, perciò ne ho approfittato per defilarmi. Lei mi ha guardato con una delle sue espressioni traboccanti pathos, come se la stessi abbandonando.
– Dài, ti lascio parlare coi tuoi amici…
– Ma no… loro li vedo sempre…!
– Ma che, te ne vai per noi? – son intervenuti loro – Resta, resta, ti pare! Ce ne andiamo noi!
Ero incastrata sulla porta. Cinque o sei persone mi fissavano rumorosamente e mi imbarazzavano facendomi sentire troppo importante. Una di loro mi guardava con un’aria da pulcino tradito. In una frazione di secondo la mia voce ha deciso di fuggire per la strada più consueta: l’ironia.
– No ti prego – ho mormorato a una degli amici di Giorgia, con aria complice – era una scusa per liberarmene! Salvatemi! – ho riso.
Naturalmente c’era del vero, come in tutte le ironie. E come in tutte le ironie, il vero, per paura, si mascherava di violenza.

– Guarda che ci sono rimasta male – mi ha detto poi Giorgia, con la sua abituale schiettezza. Ti portava sempre dritta e senza fronzoli dentro i suoi sentimenti. – Se ti dava fastidio quel programma, potevi dirmelo!
Ma no, non era fastidio. Era qualcosa che avrei saputo dire, se tu avessi avuto il tempo di insegnarmi come si fa a portare gli altri dentro i propri sentimenti. Perché te ne vai così presto?

[…continua….]