Li ho cacciati – 3

L’ho guardato, dalla porta. Aveva negli occhi arrossati una rabbia determinata e pronta alla sfida.
Io avevo due possibilità.
La prima era giudicare: come sua madre, come chiunque si rapporti con lui e in genere con una persona non autonoma. La ricetta è semplice: si prende la richiesta e la si valuta secondo il proprio sistema di valori, il proprio buon senso, l’umore del momento; poi la si risputa al mittente con sopra un bel giudizio, decidendo se è degna di esser realizzata. Avrei potuto dissuaderlo, dirgli ma dai, ti sembra, che ti credi di fare.
La seconda possibilità era eseguire. Diventare, semplicemente, le sue mani – quello che gli manca, perché la testa c’è tutta. Con i suoi scazzi, le sue crisi, le sue diciottenni imperfezioni; ma c’è tutta e non va delegittimata. Se fa una cazzata, ne pagherà lui le conseguenze; non gli serve il filtro giudicante, il cuscinetto morbido che attutisca la caduta.
– …Non me lo ricordo – ho detto lentamente, appoggiandomi alle sbarre del suo letto. Angelo stava zitto, fingendo di guardare la tv. – Ora vado su in sala informatica e lo cerco su internet, ok?
Lui ha lanciato gli occhi su di me per un momento, con un lampo di incredulità.

Prima di salire a cercare il numero, sono passata nel soggiorno-refettorio e ho incontrato la madre, seduta al tavolo con altre signore.
– Come va con Angelo? – le ho domandato.
– …Tutto bene, perché? – mi ha chiesto, un po’ nervosa.
– No, uhm, così. Sono passata e ho visto che era da solo.
– Ah, niente – ha scosso la testa con ostentata tranquillità – ha detto che vuole restare un po’ solo, e l’ho lasciato – ha alzato le spalle. – Se vuole stare solo, che problema c’è. Io, mica devo stare sempre con lui.

No, eh.

[continua – …poi giuro che finisce]