Ponti

Sono andata a salutare Giorgia nella sua camera, come tutte le sere. Ho bussato alla porta che la sua vicina di letto fa sempre chiudere, sono entrata piano e l’ho raggiunta nella penombra di luce già spenta screziata dai televisori.

– Hai le mani fredde! – mi ha detto tutta sorridente, mentre mi salutava prendendomi per mano. – Sai stamattina mentre mi lavavo… ho sentito la temperatura dell’acqua sulle dita!
– Eh! Hai visto, piano piano…
– …Si suona il piano – ha scherzato, con la speranza negli occhi.

Non so se Giorgia potrà mai suonare il piano di nuovo. Qualche giorno prima si era figurata il suo ritorno a casa:
– Quando tornerò mi chiuderò in camera – aveva detto, con voce rotta – guarderò il mio pianoforte, e piangerò.
L’avevo fissata per un po’, senza rispondere. Cosa puoi rispondere?
– …E’ come un lutto… ti rimane per sempre – ho azzardato. – E’ una specie di buco…
Mi venivano in mente le gobbe nel giardino di Buzzati, se ne solleva una ogni volta che qualcuno muore, così lui è costretto a ricordarsene ogni volta che ci passeggia sopra.
– …Che non puoi colmare – le dicevo. – Però, col tempo… ci costruisci un ponte sopra. Il buco resta, certo. Ma dall’altra parte, in qualche modo, arrivi lo stesso.

Quella sera lì, tornata nella casa d’accoglienza dove dormo quando lavoro, ho disegnato sulla moleskine un buco con un ponte sopra.

[E ora, proprio ora mentre scrivo, ho capito cosa sono quelle toppe di inesistenza, calce o cenere…]